giovedì 22 ottobre 2020
Il pensiero passa attraverso la parola, e la parola nasce dalla necessità di esprimere il bisogno: la totale dipendenza del neonato gli rende infatti indispensabile imparare ad attirare l'attenzione delle persone che si prendono cura di lui, attraverso suoni via via più differenziati con potente funzione di richiamo. Tra i due e i tre anni di età il bambino scopre però alcune parole "speciali". I suoni che ha appreso finora avevano soprattutto due funzioni: quella di richiamare l'altro per soddisfare i propri bisogni e quella di nominare le cose per condividere. Ma ora ha imparato a camminare e a raggiungere da solo molte delle cose e delle persone che gli interessano; anche il suo linguaggio si sta arricchendo esponenzialmente e nascono delle esigenze nuove. Ecco allora comparire alcune sorprendenti parole: "io-no-mio", che non hanno attinenza diretta né con la risposta ad un bisogno, né con la necessità di dare un nome alle cose. Queste parole sono la chiave del passaggio ad una situazione psichica più evoluta, nella quale si fanno strada la necessità di segnare il proprio confine personale (io), quella di affermare un diritto (mio) e quella di stabilire la propria capacità di esercitare un controllo sull'altro (no). Tutti i genitori conoscono le difficoltà di questa fase della vita infantile: il bambino è completamente accentrato su di sé e fortemente riluttante ad accettare qualsiasi prospettiva di condivisione; la capacità di considerare le esigenze degli altri non è spontanea e l'affermazione di sé e dei propri desideri si esprime in modo molto deciso. Si tratta di una tappa cruciale dello sviluppo, che segna il primo abbozzo dell'identità personale, ma che dal punto di vista educativo pone domande nuove. Il registro narcisistico è il registro fisiologico dell'età infantile, perché il pensiero del bambino è strutturalmente egocentrico: la capacità di etero-centrarsi e di considerare la realtà secondo diversi punti di vista è un portato della crescita e dell'educazione, e diviene pienamente possibile solo con l'adolescenza. Il bambino che si affaccia con la propria piccola identità nascente ( io-no-mio) sul palcoscenico della vita familiare mette i genitori davanti ad una questione nuova e importante: è possibile far coesistere i suoi desideri/diritti con quelli degli altri senza che nessuno sia costretto a soccombere? La famiglia, prima società naturale, è (anche in senso temporale) il primo luogo di confronto/scontro tra diritti diversi, tutti ugualmente legittimi, che devono imparare a integrarsi tra loro secondo un codice non scritto. È un codice a forte valenza culturale e dunque mutevole, che stabilisce gerarchie implicite: il bambino deve trovare il suo posto in relazione ai genitori, alla loro coppia, ai fratelli; una posizione che prevede margini di autonomia ma anche di dipendenza e obbedienza, normate da ogni famiglia in modo differente. Quali "diritti" pensiamo sia giusto riconoscere al bambino che sta crescendo? Quali invece pensiamo sia giusto contenere, e perché? Da questo momento in poi la questione si presenterà continuamente: decidere quando dire sì oppure no ad una richiesta, insegnare il rispetto dell'altro, contenere il naturale egocentrismo per fare spazio alla ragione di tutti, sono le questioni più rilevanti della quotidianità familiare. Ma prendere posizione su queste piccole/grandi questioni presuppone credere che ciò che dà piacere e ciò che è bene non sempre coincidono; richiede un pensiero che sappia dare valore alla capacità di attendere, di mediare, di considerare l'altro (ogni altro) come una persona che ha a tutti gli effetti i nostri stessi diritti. Richiede anche che l'adulto abbia la pazienza di insegnare al bambino che si può tollerare una frustrazione o rinviare la soddisfazione di un bisogno.
Siamo ancora disposti a farlo?
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