Milano, settembre. Una domenica mattina alle sette. Milano attorno dorme ancora. Bevo il caffè, sfoglio i giornali e sul Corriere della Sera mi imbatto in una cronaca di Lorenzo Cremonesi da Dohuc, Iraq: «Gli uomini arrivano a ogni ora, notte e giorno. Ogni volta i nostri guardiani ordinano a tutte le ragazze di scendere nella sala a piano terra. È un locale molto ampio, lussuoso, con poltrone, tappeti e tante lampade. Alcuni uomini impiegano poco tempo a scegliere. Meno di cinque minuti. Altri anc due ore. Stanno nella sala, chiacchierano, ogni tanto tornano a guardarci. Noi restiamo sedute in attesa. Quasi tutti ci prendono per la testa, ci costringono a guardarli negli occhi, vogliono che sciogliamo i capelli. Poi ci fanno girare per guardare anche da dietro. Non possiamo coprirci. I nostri carcerieri ci hanno preso gli scialli e i veli perché qualcuna ha provato a usarli per impiccarsi».Il racconto di Amira, diciassettenne yazida sfuggita ai carcerieri dell'Is, si conclude con l'immagine degli acquirenti che prendono la schiava per mano, e la portano via. Sembra storia di mille anni fa. Ma accade ora, e la ricchezza dei mezzi di informazione ci costringe a sapere, se non tutto, molto.Troppo. Vorresti non leggere, ma ti sembra vigliacco. Soprattutto ti angoscia che Amira e le altre, alcune appena tredicenni, hanno la stessa età di tua figlia; quell'età in cui noi madri consideriamo le nostre figlie ancora quasi bambine. E queste irachene, invece, sprofondate in fondo a un pozzo oscuro, dove di tutti i diritti della persona umana si fa strame. Mentre il mondo sta a guardare, distratto oppure impotente. Un genocidio passa attraverso le carni di giovani donne, e il mondo, che sa, fatica a muoversi.Forse quelle fanciulle dalle loro prigioni guardano i caccia Usa come certi reclusi nei lager guardavano gli aerei Alleati? Sperando perfino che una bomba ponesse fine all'inferno. Ma noi qui, nelle nostre case, cosa possiamo fare di fronte a queste schiave fanciulle, a queste madri separate inesorabilmente dai loro figli? Come si fa a sapere, e a non disperare? Etty Hillesum, giovane ebrea olandese vittima dei nazisti, racconta nel suo Diario di una notte in cui accompagnò un amico al treno diretto a Westerbork, anticamera di Auschwitz. Descrive le spalle fragili del ragazzo curve sotto al grande zaino, mentre Amsterdam attorno dorme, e ammutolita scrive: «In una notte come questa, bisognerebbe soltanto inginocchiarsi e pregare». Anche noi, forse, dovremmo inginocchiarci e pregare di fronte all'inaudito male in Iraq e in Siria. Inginocchiarci in una supplica inerme; e pregare, come chiede il Papa, per quella infinita moltitudine. Ma non pensandola immensa e come senza volto: invece con gli occhi di quelle ragazze come le nostre figlie, e ancora quasi bambine.
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