Come ci rapportiamo a Dio è faccenda seria e discussa. Pregare è un do ut des che ci vede impegnati nell'idea che Dio sia un bancomat di favori? Oppure sono altri gli atteggiamenti con i quali relazionarci con l'Altissimo? In una sua mirabile pagina intrisa di dialoghi, di cui è un indiscusso maestro, il romanziere francese Eric-Emmanuel Schmitt, nel libro La donna allo specchio (e/o) scrive così: «Cos'è che chiami pregare?». «Ringrazio. Mi concentro per evitare il male». «Chiedi a Dio dei favori?». «Non lo vado a scocciare con le mie storie». «Lo supplichi di intervenire in aiuto degli altri?». «Se possibile preferisco agire».
Richard Leonard, un gesuita australiano la cui sorella è rimasta paralizzata in un incidente stradale, ha scritto un meraviglioso testo sul problema della presenza di Dio dentro la sofferenza, Ma dove diavolo è Dio? (Emp). Leonard afferma che pregare Dio per fare piovere (per esempio) è trattare Dio da sciamano. Quello che dobbiamo fare nella preghiera è chiedere che noi cambiamo per diventare più docili e responsabili di fronte alle faccende della vita. Le righe di Schmitt sopracitate ci invitano a far questo: la preghiera come l'abitare un luogo di ringraziamento e di ricarica per trovare le energie con cui cambiare (in meglio) il mondo intorno a noi.
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