È possibile salvare i social? È possibile salvare Facebook, Instagram, Twitter, Snapchat e tutti gli altri? È possibile salvarli per salvarci? La domanda se l'è posta Kevin Roose sul New York Times arrivando a tre soluzioni possibili. La prima. «Dare potere al popolo», cioè trasferendo la gestione dei social ai suoi utenti e facendoli partecipare agli utili. La seconda. Creare una sorta di federazione dei social «composta da un insieme di nodi indipendenti ma collegati». In pratica: tenere sotto un unico cappello social diversi e se uno di questi «nodi» ospita troppo odio e violenza può essere tagliato senza che l'intero sistema ne esca indebolito. La terza. Offrire agli iscritti ai social un'opzione automatica di pulizia, che cancellerebbe regolarmente le app collegate ai loro profili che non usano più (o che hanno sottoscritto senza quasi accorgersene), ma anche amicizie e follower con cui non hanno più interagito da tempo.
Sono proposte interessanti, anche se alcune rasentano l'utopia. Su un punto non si può che essere d'accordo: il sistema dei social (e non solo quello) deve cambiare. Peccato che, come spiega molto bene Federico Mello nel suo libro appena uscito Il lato oscuro di Facebook l'interesse degli utenti (cioè della collettività) è molto, molto diverso sia da quello degli azionisti del social sia da quello di chi lo usa per fare pubblicità e per vendere. Perché, spiega Mello, «le piattaforme su Internet non vendono solo pubblicità, ma vendono piuttosto il nostro tempo agli inserzionisti (per intenderci è la stessa tesi con la quale sono nate e cresciute tv private come quelle di Mediaset – ndr). Più tempo hanno a disposizione più guadagnano: il nostro tempo è il loro asset. E per raggiungere questo scopo, negli anni, sono state perfezionate delle tecniche raffinatissime e molto efficaci». Sintetizzando al massimo la tesi di Mello «Facebook ci rende dipendenti». Come una droga. Come il gioco d'azzardo. Ci «pesca» e ci usa. Perché le aziende che investono su Facebook, Google e affini «vogliono che la rete sia una grande macchina di marketing».
Quindi, tornando al punto di partenza: com'è possibile salvare i social e salvarci dai social? Mello ricorda altre proposte: «Che ogni piattaforma digitale sia obbligata a ospitare un “comitato garante degli utenti” al suo interno [...] o imporre alla dirigenza Facebook un comitato indipendente in grado di approfondire le scelte della piattaforma, l'utilizzo che viene fatto dei dati, delle architetture, i possibili tentativi di manipolazione».
Sul tema è particolarmente interessante anche Il manuale di disobbedienza digitale di Nicola Zamperini. Leggendolo scopriamo che «il valore medio di un utente per l'ecosistema pubblicitario di internet è stimato in 1.200 dollari l'anno». Il libro racconta anche la genesi culturale delle multinazionali che grazie alla tecnologia dominano la nostra vita quotidiana. Ma soprattutto propone una serie di azioni «pensate per attuare una sorta di disobbedienza». Attenzione: non aspettatevi una specie di decalogo che «risolva tutto». Per «salvarci» Zamperini ci mette davanti alle nostre contraddizioni e alle nostre «colpe». «Troppi adulti hanno sui social un atteggiamento molto meno maturo dei loro figli. E troppi genitori esibiscono i loro bambini ancor prima che nascano, senza porsi o no la domanda se quello che fanno possa o meno nuocere in futuro ai loro figli».
Insomma, verrebbe voglia di scrivere che prima di salvare i social dobbiamo salvare noi stessi dal peggio di noi stessi. Prendete tutta questa storia di Facebook e della privacy. Nell'ultima settimana in Italia sul tema privacy e Facebook i media hanno scritto moltissimo anche su web e social (oltre 50mila «menzioni» della parola) ma la capacità di coinvolgimento è stata tutt'altro che importante. Perché, l'amara verità, è che a parole tutti ci diciamo che non vogliamo essere controllati ma alla prova dei fatti tutto questo ci interessa molto poco.
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