Di Mario Vargas Llosa compare ora nelle "Vele" Einaudi Elogio della lettura e della finzione, il discorso pronunciato il 7 dicembre 2010 alla cerimonia per l'assegnazione del premio Nobel. È raro che le cerimonie offrano un forte stimolo alla produzione di idee originali. Le emozioni di chi viene premiato, anche se si tratta di un genio, non sono emozioni particolarmente creative: soprattutto, come in questo caso, se il premiato è stato già ripetutamente premiato, se non gli sono affatto mancati il successo e il favore della sorte, se gioia e soddisfazione non arrivano tardivamente a compensare un dubbio doloroso sulla possibilità di essere capiti e apprezzati.
Qualcosa di interessante però Vargas Llosa lo dice. Anzitutto sulla stretta relazione che intercorre fra l'imparare a leggere («la cosa più importante che mi sia successa nella vita»), la precoce passione di leggere e il desiderio di scrivere. «Mia madre mi raccontò» dice Vargas Llosa «che le prime cose che io scrissi furono continuazioni delle storie che leggevo, perché mi dispiaceva che finissero, oppure volevo cambiarne il finale». Per quanto appagante sia una storia letta, si sente il bisogno di modificare qualcosa per adattarla a se stessi, per abitarci dentro con le proprie fantasie. La letteratura nasce dalla letteratura, poi (cosa fondamentale) incontra la vita vissuta e le dà una forma che prima non aveva.
Dopo parecchie insistenze sul rapporto fra letteratura e universalità umana, libertà politica, spirito critico, bisogno di una vita migliore e sete di assoluto, lo scrittore ricorda che la letteratura contrasta il «pragmatismo degli specialisti», i quali approfondiscono singoli oggetti di conoscenza, ma «ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo». Come dice l'epigrafe a Casa Howard di Forster, compito del narratore è «only connect», trovare connessioni che tengano insieme la pluralità dei fatti. Perché ogni fatto è un vortice di cause e causa a sua volta qualcosa di nuovo.
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