In una locanda nella rada di Helsinki, non distante dal Palazzo Presidenziale, ma isolata rispetto al centro urbano, conobbi Francesco Biamonti, uno degli scrittori più singolari della letteratura italiana contemporanea, scomparso nel 2001 a settantatré anni a San Biagio della Cima, nella sua Liguria tanto amata: facevamo parte di una delegazione invitata a partecipare ai lavori di un convegno internazionale. Mentre sorseggiavo il caffè seduto al tavolo insieme a lui vedevo transitare alle sue spalle i grandi traghetti diretti in Russia e nei Paesi Baltici, qualcuno in Polonia e anche in Germania. Era l’infinita estate nordica e mi parve di cogliere un nesso fra la debole ma persistente luce artica che avvolgeva l’insenatura in cui stavamo e l’intuizione lirica generatrice di molte sue opere: chiunque le accosti resta affascinato dagli orizzonti dietro i quali l’autore ritaglia le flebili trame. Storie di ulivi e contrabbando, vetrate scosse dal vento, paesi addossati alle rocce. Di cosa parlavamo? Mi raccontava di quando scendeva a Bordighera a comprarsi le giacche blu mare. Voleva sapere perché Cesare Pavese, al tempo in cui lavorava all’Einaudi, bocciò Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Mi sembra ancora di vederlo, gli occhi azzurri e la sciarpa annodata al collo nel golfo finlandese.
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