Penso alla definizione di poesia data, un giorno, da Patrizia Cavalli: «La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere». Vale la pena soffermarsi sull’operazione descritta dalla frase, poiché può essere estesa a tante altre dimensioni di ciò che viviamo. Il primo aspetto sorprendente sta nel fatto che non dobbiamo preoccuparci troppo del punto di partenza – che è «prendere qualcosa». La maniacale ossessione di selezionare quello che potrà o non potrà venire a risplendere sfocia solitamente in un impoverimento. In fondo, non esistono punti partenza ideali. Il miglior punto di partenza è quello latente, quello che concretamente è il nostro, quello che rappresenta l’accessibile e l’ordinario, più che non la contorta eccezione. Da lì dobbiamo partire. Nella vita e nella poesia il gesto necessario, capace di innescare un rilevante movimento di futuro, è la fiducia – anche fragile e difficile, ma fiducia – investita nella realtà che Dio ci dà. Scoprendo in tal modo che, per chi si disponga a intraprendere un itinerario interiore, tutto è opportunità e possibilità di cammino. La questione decisiva non è, pertanto, controllare da dove si parte, perché questo dipende in larga parte dall’incontrollabile zampillare della vita, che sempre ci oltrepassa. La questione è cosa fare di ciò che la vita inizialmente ci ha dato.
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