I rider fanno parte di tutti gli scenari urbani: solo a Milano sono 3mila, in gran parte stranieri. Biciclette, impermeabili, scatoloni colorati con pizze e sushi.
Sono antica, cucino in casa o vado – poco – al ristorante. Non mi va proprio di farmi servire a domicilio da quei ragazzi che, acqua o sole, per pochi euro macinano tanti chilometri. Gli darei mance da pizza stellata, non avrei nemmeno la convenienza: da quello che ho capito le mance sono il loro vero stipendio, ci contano molto.
I rider sono sottopagati e spesso privi di tutele, precari, costretti ad aprire partita Iva, a rischio penale se il cibo non arriva caldo. Una condizione disastrosa. Giovani e pressoché schiavi. Spesso costretti, dopo aver nutrito mezza città – paradosso folgorante –, a mangiare nelle mense dei poveri.
Ci sono anche aspiranti giornalisti pagati 2 euro a pezzo – per chi ci pensa ancora come una "casta" – e stagisti che lavorano per un panino a pranzo.
Ma i rider con le loro divise sgargianti rappresentano meglio di tutti la condizione giovane-lavorativa, la fatica, la paura, il corpo a corpo continuo con l'insicurezza e la povertà. Se si pensasse davvero a loro (e questo giornale ci prova a proporlo), ci sarebbe quanto basta per riempire le agende di tutti i sindacati e dei prossimi 10 governi.
Tenere i "piccoli" al centro di ogni cosa. Cambiamo la loro condizione, cambieremo il mondo.
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