Paolo, Jannik e quell’alt Orgogliosi dello sport
mercoledì 17 aprile 2024
Uno si chiama Paolo, ha 49 anni e a causa di una malattia ai reni, vive in dialisi. Paolo ama lo sci, ma non ci può pensare, diciamo che non è più la sua priorità. Paolo, però, ha una moglie che si chiama Giulia e che un giorno ha pensato che sarebbe stato bello donargli un rene e magarli, fra le altre cose, vederlo di nuovo sciare felice. Il reparto di nefrologia, dialisi e trapianti dell’ospedale Molinette di Torino fa il resto. In realtà, qui banalizzo in una riga quello che chirurgi vascolari, urologi, anestesisti, fanno con un lavoro di squadra straordinario, ma sono certo che mi perdoneranno, perché grazie al cielo la notizia non è quella, nel senso che i nostri medici rendono facile e normale quello che è straordinariamente difficile e speciale. La notizia è che, cinque mesi dopo il trapianto, Paolo partecipa ai World Transplant Winter Games a Bormio (i Mondiali invernali per trapiantati, con atleti da 22 Paesi del mondo), inanella due splendide manches di slalom gigante e vince la sua medaglia. D’oro. Uno si chiama Evan, ha 25 anni ed è un atleta professionista, gioca a calcio nella Roma e con la sua nazionale della Costa d’Avorio ha vinto l’ultima Coppa d’Africa. In una caldissima domenica di aprile, esattamente nel giorno del dodicesimo anniversario della tragica scomparsa, per una disfunzione cardiaca e su un campo di calcio, di Piermario Morosini, si sente male mentre sta giocando, a Udine. Si accascia, toccandosi il petto. Viene immediatamente soccorso, non perde conoscenza, più tardi si riprenderà e grazie al cielo la notizia non è questa. La notizia è che in quegli istanti nessuno può ancora sapere del lieto fine e i calciatori dell’Udinese e della Roma sono sconvolti. L’arbitro attende qualche minuto, poi capisce che non è umano chiedere loro di far finta di nulla e proseguire. «The show» per una volta «must not go on». Triplice fischio, tutti negli spogliatoi e poi in ospedale per dimostrare il proprio affetto a Evan, che alla sera manda una foto sorridente. La partita, prima o poi, si recupererà. Uno si chiama Jannik, ha 22 anni è il tennista numero due al mondo. Dopo aver trionfato sulle superfici veloci affronta il primo torneo dell’anno sulla terra rossa, a Montecarlo. Cambiare superficie non è banale, ma fa un ottimo torneo, arriva in semifinale, ha una palla per andare 4-1 nel set decisivo. L’avversario serve una palla nettamente fuori, ma la signora arbitro non se ne accorge. Jannik non si ferma per chiedere di verificare il segno della palla, risponde e poi sbaglia. Perde quel punto, quel game, il set e la partita. Il suo avversario, invece, vincerà il torneo il giorno dopo. Ma la notizia non è questa, perché nello sport si vince e si perde. La notizia è che quando gli chiedono: «Perché non ti sei fermato?», Jannik risponde: «Perché quello non è il mio lavoro, il mio lavoro è giocare», rifiutando un alibi confezionato in modalità magnum da tutti coloro che non si danno pace che un atleta possa essere trasparente e rigoroso al punto da averne uno svantaggio. Tre storie completamente diverse, tre motivi assolutamente uguali di essere orgogliosi dello sport. © riproduzione riservata
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