Padre Pedro Opeka era già stato protagonista di uno dei primi articoli di questa mia rubrica, quattro anni fa, ma devo necessariamente dedicargli un secondo omaggio in prossimità di un evento epocale: domenica prossima, 8 settembre, il nostro Santo Padre varcherà la soglia della sua comunità Akamasoa, in Madagascar. Papa Francesco troverà ad aspettarlo il suo connazionale e scommetterei che la prima battuta che si scambieranno, insieme a un sorriso e un abbraccio, sarà sull'andamento del campionato di calcio argentino.
Papa Francesco, è cosa nota, è un appassionato tifoso del Club Atlético San Lorenzo, mentre padre Pedro è un missionario lazzarista, ex calciatore di ottimo livello. Sarebbe potuto diventare un professionista del pallone, ma decise di lasciare lo sport agonistico per stare, in modo totalizzante, dalla parte dei poveri e dei diseredati. Lasciato il calcio partì per il Madagascar, isola dalla natura meravigliosa in cima alle classifiche di povertà del pianeta, portando con sé la Teologia della Liberazione di dom Hélder Câmara e un pallone. Si fermò in prossimità della più grande discarica di Antananarivo, la capitale del Madagascar, un luogo dal quale anche gli animali, a causa del fetore insopportabile, si tenevano lontani. Pochi animali in quella specie di inferno metropolitano, ma molti esseri umani, soprattutto bambini, che padre Pedro vedeva ogni giorno rovistare nell'immondizia perché nelle discariche c'è sempre modo di trovare qualcosa da mangiare.
«Erano belli come angeli, lì in mezzo ai rifiuti. Un'immagine che non mi lascerà mai la mente» dice padre Pedro, che decise di tirare fuori, proprio lì, il suo pallone. Costruì campi da calcio e usò lo sport e nello specifico, il calcio, per evangelizzare. Indossando spesso la maglietta albiceleste della sua Argentina costruì, giorno dopo giorno, la storia di Akamasoa da centrocampista offensivo, portato alla finalizzazione. Padre Pedro, infatti, preferisce le azioni alle parole, ma una la pronuncia con uno sguardo di una intensità che fulmina: verità.
«C'è verità nello sport», sostiene questo uomo che non si ferma mai, straordinario atleta di Dio. Viaggia, tesse relazioni, viene più volte candidato al premio Nobel per la pace, ma sempre con un unico obiettivo: raccogliere donazioni e forza per tornare ad Akamasoa, prendersi cura di quel pezzo di mondo e strapparlo alla disperazione. Sono passati trent'anni da quelle prime partite a calcio sull'immondizia e oggi Akamasoa è una enorme comunità, divisa in 22 villaggi, dove vivono 25.000 persone, vengono assistiti per aiuti specifici oltre 30.000 poveri e, ogni giorno, 14.000 bambini vanno regolarmente a scuola. I libri, il Vangelo, il pallone sono strumenti che i ragazzi usano tutti i giorni, mentre ospedali, teatri, biblioteche, chiese e campi sportivi hanno la stessa dignità e importanza, secondo padre Pedro e quella sua vocazione alla verità, alla felicità e a quel saper "far squadra" che il missionario argentino incarna in ogni centimetro del suo corpo, in ogni parola che pronuncia, in ogni sguardo che attraversa i suoi occhi azzurri.
Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente padre Pedro e la sua meravigliosa storia nel 1994, in occasione di un periodo che trascorsi in Madagascar per lavorare alla mia tesi di laurea e, senza che allora lo potessi immaginare, ascoltai una frase che avrebbe stravolto per sempre il mio modo di pensare allo sport. Perdonatemi: la ripropongo. Erano da poco terminati i Mondiali di calcio negli Usa e i bambini di padre Pedro, meravigliati di fronte a quello spettacolo planetario, conoscevano Gesù e Roberto Baggio. Uno di loro mi spiegò la differenza fra quei due campioni: «Gesù non avrebbe mai sbagliato un rigore nella finale del campionato del mondo!».
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