Esultano i consumatori attenti all'origine del prodotto alimentare. E hanno ben ragione di farlo, visto che pochi giorni fa l'Unione europea ha dato il via libera definitivo all'obbligatorietà dell'indicazione in etichetta del luogo di origine dell'olio di oliva. È la conclusione di una vicenda lunga e complicata " iniziata molti anni fa con quella che le cronache del tempo definirono la "guerra dell'olio" con tanto di blocchi ai principali porti d'importazione " che ha il sapore di una storia esemplare. Tanto che c'è già chi, come la Coldiretti, chiede l'estensione dello stesso principio anche ad altri prodotti alimentari. Una richiesta necessaria che, tuttavia, non deve far dimenticare l'importanza di tutto il comparto agroalimentare nazionale.
Dietro le esigenze di sapere da dove arrivano gli alimenti che acquistiamo c'è, ovviamente, ben altro che una semplice curiosità gastronomica. Gli ordini di problemi da affrontare sono essenzialmente due. Prima di tutto quelli relativi agli aspetti igienico-sanitari: è chiara ormai a tutti la disparità dei livelli di controllo sui prodotti esercitati dalle diverse amministrazioni. Poi c'è una questione squisitamente economica. Basta pensare che nel 2008 l'Italia ha importato circa 500 milioni di chili di olio di oliva che in assenza di etichettatura si "confondono" con la produzione nazionale che è stata pari a poco più di 600 milioni di chili, in aumento del 10% rispetto allo scorso anno e di alta qualità. «Una situazione che " ha prontamente spiegato la Coldiretti " ha avuto un forte impatto negativo sui prezzi pagati agli agricoltori che sono crollati del 30% al di sotto dei costi di produzione mettendo a rischio il futuro del settore». Trasparenza di informazioni, significa quindi trasparenza nelle scelte e nel mercato. Soprattutto tenendo conto dell'estensione di quest'ultimo in Italia. Il Paese vanta circa 250 milioni di piante, 38 denominazioni (Dop/Igp) riconosciute dall'Ue, ma anche una forte frammentazione aziendale che dà comunque origine a una produzione che vale circa due miliardi di euro e 50 milioni di giornate lavorative.
Una situazione simile è riscontrabile anche in altri comparti dell'agroalimentare. È con ragione, quindi, che i produttori chiedono adesso l'estensione dello stesso principio di riconoscimento del luogo di origine anche ad altri prodotti. E l'elenco di chi aspetta ancora un provvedimento del genere è lungo. Basta pensare alla pasta, alle carni di maiale e ai salumi, alla carne di coniglio, alla frutta e alla verdura trasformata, ai derivati del pomodoro diversi dalla passata, ma anche al latte a lunga conservazione e ai formaggi non Dop, oltre ai derivati dei cereali (pane, pasta) e alla carne di pecora e agnello. Tutti prodotti che possono sperare in un rilancio che passa anche dal luogo di produzione e che può essere validamente conciliata con la necessità di valorizzazione e controllo di tutta la produzione agroalimentare che approda ai mercati nazionali.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: