Da quando non ha più nulla da dire, parla senza sosta. Non appena ha qualcosa da dire, tace.
Sembrano note stenografiche, brevi, essenziali, spesso fulminanti: sono così gli appunti che nel 1992-1993 il Nobel della letteratura Elias Canetti (1905-1994) scrisse in un quaderno e che sono stati pubblicati in italiano da Adelphi sotto il titolo Un regno di matite. Abbiamo scelto un'annotazione a caso: è una frase tagliente che purtroppo ben s'adatta un po' a tutti. Troppo spesso, infatti, parliamo, parliamo e le nostre parole si disperdono in chiacchiera vana. Un altro scrittore, l'inglese del '600-'700 Alexander Pope, giustamente osservava che «le parole sono come le foglie: dove abbondano è raro che sotto vi si trovi molto frutto».
Era ciò che insegnavano i padri del deserto quando esortavano gli ascoltatori a scuotere le piante simboliche dei discorsi dei predicatori per farne cadere le foglie secche delle molte parole così da scoprire se ci fosse qualche frutto. Pratichiamo, dunque, non solo la dieta dei cibi ma anche quella delle parole. Tuttavia Canetti ci mostra un altro volto del linguaggio, antitetico al precedente. Ci sono, infatti, casi in cui si tace una verità per viltà, rispetto umano, quieto vivere. Pronti talora a pronunciare la frase sbagliata che incide una ferita di odio, si è invece altre volte muti quando sarebbe necessario testimoniare la propria coerenza, la convinzione profonda, la fede, i valori. Con una battuta potremmo dire che la parola ha due nemici da tenere a bada: il troppo e il troppo poco.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: