A ragione il poeta Charles Péguy scrisse che quando ci rifiutiamo di sporcarci le mani nella cura della vita finiamo ben presto per restare senza mani. È un fatto: troppe volte viviamo senza mani, abbiamo perduto le nostre mani laggiù in qualche tappa del cammino, ci siamo dimenticati del loro significato, della loro funzione, e per anni e anni non ne abbiamo avuto coscienza. In verità, le mani che si danno si scoprono come mani, come operatrici del dono, come protagoniste della storia. Le mani che si danno odono finalmente il loro proprio idioma; capiscono che esse si compiono non come afasia, ma come linguaggio. Per questo hanno tanta sapienza da trasmetterci: rivelano che l’esercizio della cura (a partire dalla cura più insignificante, elementare) ci permette di conoscere in quale punto del mondo ci troviamo e, allo stesso tempo, in quale punto ci troviamo noi.
Ci accade di rinunciare a pensare alla felicità perché la crediamo condizionata da una lunga, esorbitante lista di fattori. L’elenco dei “se” che andiamo accumulando rende la felicità inaccessibile, e questo ha un costo: quello di restringere la nostra visione a questa dichiarazione di impossibilità. Un passo importante, tuttavia, è quello che facciamo quando abbiamo il coraggio di ridefinire i nostri motivi di gratitudine e di stupore. Mi torna alla mente un’antica poesia che dice: «Non potrei essere più felice. / Vado a prendere l’acqua al pozzo. / E spazzo le foglie nel mio cortile».
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