V orrei cercare di ricordarmi. Quando avevo vent’anni i miei genitori mi sembravano vecchi. Gli volevo bene, ma ormai ero grande, ed era chiaro che loro si allontanavano dal mio orizzonte. Mia madre poi, con la sua depressione inesorabile, volevo solo sfuggirla – benché mi facesse pena. Mio padre, mai visto da bambina ma poi riconosciuto e amato, doveva comunque restare un passo indietro. Lui lo sapeva: stava in disparte, ma se appena lo cercavo c’era.
La pena per l’alienazione di mia madre invece mi tormentava, facevo un vero sforzo ad alzare il telefono e a chiamarla, ad andarla a trovare. In ogni caso mai, né a mio padre né a mia madre avrei mai pensato di raccontare, per esempio, di essermi innamorata. Quasi dessi per scontato che quei due nulla potevano sapere di ciò che provavo, e che a me sembrava così nuovo, così accaduto per la prima volta al mondo. Forse, anche, in molti avevamo dentro di noi un rigoroso pudore per ciò che riguardava sentimenti, passione, sesso. Un sollen, un imperativo, su certe cose, con madre e padre, a tacere.
Ora che madre di ragazzi grandi sono io, trent’anni dopo, mi pare che un nucleo almeno delle cose non sia cambiato. Mio marito e io, agli occhi dei figli, siamo i genitori vecchi, cari, da andare a trovare ogni tanto. La prima linea della vita è loro, adesso, con gli amici, i progetti, il matrimonio, i figli. Noi siamo il passato. È fisiologico, è giusto. Anzi, è sano: ben peggio sarebbe se non sapessero staccarsi da noi.
Tutto bene dunque? Non tanto. In verità io mi sento orfana. Quei tre, erano tutta la mia vita. Con loro, straordinario regalo, ero tornata bambina, avevo giocato come di nuovo bambina. E invece i figli mi hanno lasciata indietro. Non che lo dicano apertamente, ma: quale bambina? Sei nostra madre e hai sessant’anni, accontentati che ti vogliamo bene, che veniamo qualche volta a cena, e sei fortunata ad avere dei nipoti. E, ripeto, tutto questo è giusto. I figli bisogna lasciarli andare, la loro vita preme e li aspetta. Sciocca io, a non averlo capito prima. Ti insegnano una dedizione assoluta ai figli, ma quasi mai ti dicono che a un certo punto, e sempre prima ormai, basta, devono andare.
Ripenso allora alle facce di mio padre e di mia madre in certi particolari giorni, e ora li capisco, e ora sì, vorrei abbracciarli forte e averli accanto, compagni, coetanei. La faccia di mia madre quando caricai due valigie e dei libri per andarmene di casa. Nella sua malattia me lo aveva chiesto lei, aspramente: «Vattene!». E l’ascensore è sceso con il suo singulto consueto, e io sola con le mie valigie in mano, per strada. Ma adesso penso a lei, rimasta nella casa della nostra infanzia, sola, e soltanto ora capisco, e vorrei correre indietro ad abbracciarla.
E ripenso a mio padre, quando mi salutava dal pianerottolo, e ancora mentre l’ascensore cominciava a scendere esortava: «Mi raccomando!». Mi raccomando tutto, voleva dire, vai piano in auto, stai attenta a ciò che fai, trovati uno che ti voglia bene davvero, non buttare via questi anni. Ma io scrollavo le spalle e sorridevo a quel “Mi raccomando!”: che voleva dire? Cosa mai poteva succedermi?
E solo ora capisco la pena di madri e padri anche per un ritardo di un’ora, o quando il figlio sembra triste e solo. Ma, e lo so bene, è quasi inutile fare domande. Loro, pensano che noi non capiamo. Si sta dunque a guardarli i figli come da una finestra, giù per strada, che passano. Pregare per loro ogni mattina, e lasciarli andare. (Tu no, però, tu devi restare: perché sono per sempre i tuoi figli, e chissà che un giorno non bussino alla porta, a chiedere aiuto. E tu sarai lì allora, e aprirai, perché l’hai scritto dentro, è ciò che sei chiamata a fare).
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