mercoledì 14 novembre 2018
Nevica raramente a Milano, e quando nevicava, da bambina, ero felice. Mio padre, invece, nel vedere la città imbiancata si incupiva. Quasi fosse preso d'assedio da una intensa malinconia. Doveva essere successo qualcosa fra mio padre e la neve, mi dicevo.
Adolescente, lessi un suo libro di memorie della Campagna di Russia. La neve e il gelo in quelle pagine erano una presenza incombente: la neve in cui nella marcia disperata della Ritirata gli Alpini affondavano, il gelo che li assiderava.
Mio padre, capii, aveva associato la neve alla morte. All'orizzonte grigio e sterminato della steppa, da cui aveva creduto di non tornare. A tutto il sangue che aveva visto scorrere in quei giorni. Ai compagni smembrati dalle granate, ai congelati, a quelli che non ce la facevano più a camminare, e infine si lasciavano andare sulla neve, a morire.
Di tutto questo, lui a me non disse mai una sola parola. Quando sentiva nominare Dio, però, cambiava discorso. Come se avesse visto troppo male, per poter credere ancora nel Dio buono in cui l'aveva cresciuto sua madre.
La faccia che mio padre aveva quando nevicava, l'ho ancora in mente. Come un'ombra addosso. Quanto profondamente l'inferno bianco, indicibile ai figli, lo aveva segnato. E quanti, come lui, erano tornati dalla guerra con quella invisibile ferita.
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