domenica 22 aprile 2018
Adesso sapevo perché eravamo stati preservati dai colpi, dalle mutilazioni e dalla morte. Ciascuna delle tribù che avevamo attraversato avrebbe potuto a più riprese recare offesa ai nostri corpi, ma dovevamo uscirne indenni perché le nostre ferite non ci fossero inflitte da altri che noi stessi. Dovevo restare integro per commettere l'irreparabile. Dovevo non essere martire per diventare un assassino. Ero partito con il crocifisso tra i fiori, persuaso di condurre alla fede i popoli di una Metagonia che non aveva conosciuto né la cristianizzazione né la scristianizzazione dell'occidente, popoli che conservavano tutta la grezza innocenza necessaria al grande rinnovamento dalla Chiesa. Ed ecco che, passo a passo, di delusione in disperazione, avevo perso il pane e il vino eucaristici; poi avevo perso la mia tonaca; poi, in una lotta feroce, avevo perso l'accappatoio da villeggiante con cui mi avevano ricoperto le Venidri… e mi ritrovavo là, disteso, nudo, impiastricciato di terra e di ecchimosi, caduto più in basso di qualsiasi barbarie, mentre due rivoli di sangue colavano delle narici di un Ugo la cui la respirazione taceva. Il mio cuore aveva infine tirato fuori ciò che c'era nel suo fondo. Avevo riprodotto il primo omicidio, un fratello che uccide suo fratello sulla soglia fiammeggiante dell'Eden. E, colmo dell'umiliazione, ero io che apparivo come il più bestiale dei selvaggi ed erano tre Metagoni che mi predicavano l'amore. Perché i tre personaggi in bianco che avevano messo fine alla mia rabbia (ma forse si era si esaurita da sola) non erano esattamente un'apparizione della Trinità. Per un minuto, l'avevo creduto, tanto sembravano uscii dritti dritti da un affresco di Rublëv. Ma fui rapidamente disilluso da alcuni segni che non ingannavano. Il loro abito sapeva troppo di bucato. Il loro sorriso era rigido come quello di un'hostess o di certi predicatori televisivi. E soprattutto, tra due frasi dette in coro, masticavano gomma americana. Avrei avuto tutto il tempo di apprendere la mistica connessa con quella gomma americana (già vedevo che non la masticavano volgarmente, alla texana, ma chiudendo occhi e labbra in un'aria di profonda meditazione). Al momento, si lamentavano della mia ignoranza, e quando mi dissero: «Il mondo vecchio è scomparso, la vostra carne rifiorirà, avete raggiunto la civiltà dell'amore», svenni. Mi risvegliai in un letto che anch'esso emanava un forte odore di bucato. Avevano curato le mie piaghe. Avevano vestito anche me con una tunica bianca che sembrava una via di mezzo tra il camice di un medico (o di un malato) e l'abito della prima comunione. Tre infermiere mi stavano intorno con manifesta benevolenza e ancor più con la preoccupazione di mostrarmi quanto andassero d'accordo. Dico “infermiere” ma non so se fossero uomini o donne, e non posso neanche garantire che non fossero quelli che ci avevano soccorsi nella foresta. Certo, masticavano anche loro gomma americana. Chiesi notizie di Ugo: l'avevo davvero ucciso? C'era ancora una possibilità che fosse vivo? Le tre infermiere misero simultaneamente il dito indice sulla bocca ruminante poi zufolarono contemporaneamente una risposta che aumentò la mia incertezza: «Ugo non è più. Lei non è più. L'uomo vecchio uomo è morto, e l'uomo nuovo, che è una cosa sola assieme all'altro, lo Zego, sta per nascere». Mi trovavo in mezzo a una comunità cristiana primitiva? O in un campo di rieducazione alla Pol Pot? Continuarono: «Siamo un cuor solo e un'anima sola e nessuno si vanta di essere superiore o inferiore, nessuno pretende che i suoi beni gli appartengano in esclusiva, ma abbiamo tutto in comune…». Si trattava di un calco abbastanza preciso degli Atti degli Apostoli, e, tuttavia la mia impressione di essere in un campo di rieducazione ne usciva rafforzata. Mi lasciai dunque rieducare, o perlomeno facevo finta. Ogni volta che cercavo di informarmi su cosa fosse successo a Ugo, le mie tre infermiere di sesso indeterminato mi opponevano grandi frasi teologico-morali sull'“offerta di sé”, il “superamento delle divisioni” e la “carità che abbatte il muro dell'odio e opera la fusione degli spiriti”, il tutto recitato in trio. Alla mia ventesima richiesta mi propinarono un trattato su “Goez” che era tre persone e che il fuoco dell'amore aveva fuso in una sola entità senza contorni. Capii che non potevo ottenere nulla in quella maniera. Mi sottoposi dunque al loro progetto di riformazione del mio essere. Sarebbe stato un modo per visitare la loro città (case circolari di uno stesso volume dove si abitava in tre) e cercare di sapere se il mio confratello fosse in vita – oggi niente contava di più per me del rivederlo – o se l'avessi picchiato a morte – ieri niente contava di più per me di sterminarlo – secondo quella legge che vuole che possiamo amare profondamente gli insopportabili solo dopo averne fallito l'assassinio. Di solito si parla di “costumi” al plurale. Per gli Zego sarebbe meglio il singolare: il “costume”. I loro gesti sono talmente millimetrati e sincronizzati che ci si potrebbe credere colpiti da un'infezione oculare che fa veder triplo o molti gruppi di tre volte lo stesso individuo. Secondo loro è l'effetto della “comunione nel dono reciproco” che chiamano anche “unanimità liturgica”. Ogni passo deve essere di sesssanta centimetri (un metro e venti nelle situazioni di emergenza). Un alimento duro è masticato trenta volte, né più né meno, un alimento molle quindici volte. Un sorso si dosa a un centilitro e mezzo (un bicchiere graduato facilita questa moderazione). Evidentemente le porzioni di cibo sono rigorosamente uguali e anche i pranzi più importanti si fanno con vassoi a compartimenti come quelli degli ospedali, per celebrare la consustanzialità degli amici: «All'inizio è abbastanza difficile afferrare il medesimo nell'altro, mi spiegarono tre Zego, soprattutto quando si proviene da quelle terribili tribù che ci circondano. Ma alla fine diventa spontaneo». E si rimisero a ruminare la loro gomma, su un tempo predefinito di 67 masticazioni al minuto, che corrisponde in musica all'adagio. L'osservazione sulle “terribili tribù” suggeriva che per “fare un cuor solo e una anima sola” conveniva anche esser rinsaldati dall'odio di comuni nemici. L'ho già detto: si somigliano tutti enormemente. Il loro genere è androgino. Il loro viso ha tratti regolari e direi anche che è abbastanza bello, di un tipo michelangiolesco, se non fosse che la sua ripetizione su tutte le facce provoca la nausea. La loro statura rasenta il metro settanta (una leggera flessione del ginocchio permette un allineamento perfetto). Una tale unità morfologica, segno della “civiltà dell'amore”, ha certamente richiesto molti incesti e infanticidi.
(33, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI