Manlio Gelsomini era uno dei 335 civili, militari e prigionieri politici italiani trucidati a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe di occupazione tedesche, come rappresaglia per l’attentato partigiano di Via Rasella. Aveva 37 anni e alle spalle una vita da sportivo.
Manlio fin da ragazzino corre fortissimo, tanto da diventare velocista nelle fila della “A.S. Roma”. Forse la mamma, la signora Sparta, in virtù del suo curioso nome aveva contribuito a un’educazione rigorosa e orientata all’attività fisica, sta di fatto che Manlio corre così veloce da essere convocato dalla squadra nazionale di atletica leggera, fino a sfiorare la partecipazione di Giochi Olimpici.
A Manlio piace anche studiare. Frequenta la Facoltà di Medicina e trova proprio nello sport universitario il suo modo di esprimersi. Diventa campione italiano universitario nei cento metri, a Genova nel 1928. È un ragazzo che vive in pieno la sua gioventù, studia, corre ed è anche un goliarda, fa parte dei Guf (Gruppi Universitari Fascisti). È il 1928, anno in cui il “Gran Consiglio del fascismo” diventa istituzione e Benito Mussolini vede nello sport, e in particolare nello sport universitario, un veicolo di propaganda. Manlio è un ragazzo pieno di vita, un leader. Parla, difende il regime anche menando le mani, quando serve. Quell’energia la mette a disposizione anche di un altro sport: diventa rugbista, probabilmente affascinato dalla storia di Eric Liddell, il missionario scozzese che, per non tradire la sua fede, rinunciò a gareggiare nei 100 metri ai Giochi Olimpici di Parigi nel 1924 e che era anche un fortissimo rugbista. Manlio gioca ala, proprio per sfruttare la sua velocità, per la S.S. Lazio ed eccelle anche in quella disciplina. La Federazione atletica lo costringe a scegliere, perché è nella lista dei potenziali atleti per i Giochi del 1932 a Los Angeles. Gelsomini, tuttavia, inizia a esporsi criticamente, lascia il suo impegno nel Guf. Non viene convocato per i Giochi e si concentra sul suo percorso accademico e sulla sua tesi di laurea: “La ricerca del pH nelle urine degli epilettici”. Diventa un medico colto e generoso che si applica alla professione come nello sport, abbuffandosi di vita. Negli anni 30 del Novecento i medici sono pochi, lui c’è sempre, ovunque, per tutti. Nel frattempo il fascismo completa la sua ascesa, scoppia la seconda Guerra Mondiale. Gelsomini c’è anche lì, capitano medico di complemento. Tuttavia il 5 settembre del 1942 rompe definitivamente con il fascismo: c’è un provvedimento disciplinare nei suoi confronti, viene sospeso. È il momento in cui, definitivamente, cambia tutto.
Manlio è a Roma l’8 settembre del 1943, si sottrae ai tedeschi ed entra nel Fronte militare clandestino della Resistenza romana. Il suo nome di battaglia diventa “Ruggiero Fiamma” e si organizza sulle montagne viterbesi con il raggruppamento “Monte Stella”. Denunciato da un delatore viene arrestato dai tedeschi e, come recita la motivazione della medaglia d’oro al valor militare assegnatagli alla memoria: «sottoposto per 76 giorni ad inumane, indicibili torture, serbando il più assoluto silenzio circa l’organizzazione di cui faceva parte. Barbaramente trucidato insieme agli altri martiri alle Fosse Ardeatine, donava, sublime olocausto, la sua vita fiorente per la salvezza dei compagni di fede e per il riscatto della Patria oppressa».
Questa storia è meravigliosamente raccontata da Valerio Piccioni, in un libro che si intitola: “Manlio Gelsomini. Campione partigiano”. Uno di quei libri che bisognerebbe adottare nelle scuole, insieme ai manuali di storia, per parlare, con onestà e verità, di un periodo terribile eppure fecondo del nostro Paese.
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