In Africa c'è un bambino che porta il mio nome: si chiama Alì Babucar Eraldo Affinati. Lo presi in braccio appena nato, in una casa di paglia, sotto gli occhi della madre giovanissima ancora affaticata dal parto. Ora dovrebbe aver compiuto cinque anni e lo vedo già grandicello insieme ai genitori in un'immagine su WhatsApp con la maglietta bianca, i calzoncini azzurri, l'aria timida come avevo io alla sua età. Non posso fare a meno di ripensare allo sguardo compiaciuto dell'imam quando scrissi su un foglio la grafia precisa dell'identità da riportare nei registri della moschea. Sono entrato nella storia di Sare Gubu, uno sperduto villaggio del Gambia! Sarà la mia piccola immortalità. Scherzo, ma non troppo. Non siamo pochi a ricevere questo onore perché nel continente africano usa dare il nome dell'ospite in visita. È una cortesia che si fa a chi ti viene a trovare. Io non la scorderò mai. Ricorderò sempre l'emozione provata l'alba in cui sentii pronunciare il mio nome nell'altoparlante che diffondeva la preghiera del muezzin. Stavo ancora dormendo e non sapevo cosa lui stesse dicendo. Quando lo compresi ero già circondato da un nugolo di bambini che venivano a festeggiarmi storpiando il mio nome nei modi più buffi: Raldo, Rinaldo, Rolando. Come se fossi un giocatore brasiliano.
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