La giustizia di questo mondo somiglia a quelle ragnatele ordite in lungo, tessute in tondo, che si trovano nelle tinaie. Dio guardi mosche e moscerini che vi bazzicano un po' vicino;
purgano subito il delitto non appena vi si impigliano. Invece, i calabroni bucano, passano senza danno, e la giunta dello scarpone tocca tutta al ragno.
Ogni traduzione impallidisce e appanna l'originale: questo vale a maggior ragione per una versione dal dialetto, espressione
forse rubesta ma certamente robusta della realtà percepita senza fronzoli e ninnoli. E' il caso del sonetto La giustizia de sto mond di quello straordinario poeta milanese che fu Carlo Porta (1775-1821), ammirato da Foscolo, Manzoni, Stendhal e Croce. L'idea è, comunque, chiara ed efficace, affidata all'immagine di una ragnatela ordita in modo creativo e armonioso da un ragno. Essa diventa la triste parabola della «giustizia di questo mondo».
Volano i moscerini e le mosche, cioè le persone modeste e semplici, e sono implacabilmente catturati da quella trama di fili. Si precipita un calabrone, segno di potenza o prepotenza, ed ecco l'esito: la rete si squarcia ed esso ne esce indenne e fin ringalluzzito. Ma non è finita. In quella cantina entra il padrone, simbolo del potere dominante, vede quella ragnatela, la abbatte e il povero ragno, cioè il giudice, viene calpestato e spiaccicato dal tacco dell'uomo. Purtroppo la storia racconta questo apologo in mille modi, premurandosi di mostrarne l'amara verità. La morale ideale da raccogliere è valida anche per chi non amministra la giustizia o ne è coinvolto e può essere espressa con le parole lapidarie di Cristo: «Beati gli affamati e gli assetati di giustizia"» (Matteo 5, 6).
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