Il rapporto tra chi osserva e chi è osservato si può intendere come di potere. Un fotografo, per esempio, esercita una forza nei confronti del proprio soggetto, nel momento in cui lo ha scelto e lo fa mettere in posa. Lo sguardo è una forma di presa di possesso sul soggetto guardato, un atto che cela un’implicita richiesta di adeguamento da parte del “ritratto” alle richieste di colui che lo ritrae. Accade in fotografia, accade in pittura, in scultura, nel cinema: l’osservatore (pittore, fotografo, scultore, regista) si avvale di un astratto diritto di larvata supremazia. Uno stato di cose cui non mancano però luminose eccezioni: come quando la fotografa Diane Arbus racconta il suo adattarsi alle «cose malmesse». Lei che ha saputo ritrarre con sensibilità unica tanti soggetti “strani”, marginali, affetti da deformità, dice che sempre l’imperativo è stato adattarsi lei ai soggetti che fotografava, e non viceversa. «Se qualcosa è fuori posto davanti a me, mi metto a posto io», ha scritto in una illuminante nota sulla sua professione. “Metterci a posto noi”, gli osservatori, davanti a tante condizioni di caos, o malessere, o altro che trovandocelo di fronte ci procura disagio. Avere l’umiltà di essere noi a riposizionarci: quante volte dovremmo farlo, e non ne siamo capaci.
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