Come sinonimi di “produrre”, certi dizionari propongono i verbi “generare” e “creare”. Ma è uno sbaglio. Non si dice “produrre un figlio”, ma “generare”, perché un figlio è frutto di amore. Non si produce un abbraccio, né la profusione di luce di un sorriso, né un silenzio, né la scrittura senza lettere di un pianto, e neppure un’amicizia, o la cura solidale, nemmeno quell’architettura intima di relazioni che costituisce il cuore di una casa; non si produce la ricerca che non ha fine o lo stupore su cui la vita costantemente ci apre, né il desiderio o l’incontro che lo travalica, neanche il riposo di certi momenti o la danza che esso sogna per noi. Né si produce un invito alla festa, o il giungere a una festa. Non si produce quello che il presepio significa. Il Vangelo di Giovanni, anzi, lo spiega così: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Il presepio è una rappresentazione radicale della vita, in controtendenza con la maggior parte del nostro presente, e non solo perché la vita qui viene messa al centro anziché essere declassificata e spedita a una periferia, ma anche perché viene scritta a caratteri maiuscoli. Il presepio sconfessa il conformismo che ci induce a occuparci dell’amputazione della nostra stessa esistenza e di quella dei nostri simili. Ci obbliga a volere di più di questo. Il presepio rivela l’essere umano a sé stesso e gli fa scoprire la sua vocazione sublime.
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