Il percorso dell'autonomia differenziata ha registrato uno scatto in avanti con la presentazione della bozza del disegno di legge attuativo da parte del ministro Calderoli in sede di conferenza delle Regioni. Con un pizzico di malizia (andreottianamente motivata) si potrebbe pensare che le elezioni previste a febbraio in Lombardia costituiscano uno specifico incentivo a rilanciare la questione. Ciò non toglie che per la Lega – almeno per quella che ha sempre conservato il baricentro al Nord – tale questione abbia rappresentato sin dalle origini la principale bandiera identitaria. Subito sventolata con energia al momento della nascita del governo Meloni. Ma la premier proviene da tutt'altre radici e ha immediatamente tirato il freno, sottolineando che l'autonomia dovrà andare di pari passo con il nuovo statuto di Roma e soprattutto con l'introduzione del presidenzialismo.
Appare quindi azzardato ipotizzare tempi brevi. E francamente risulta straniante il pensiero che l'autonomia più che rafforzata chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (con non marginali distinguo) possa essere oggi inserita tra le priorità del Paese, in una fase in cui semmai ci sarebbe bisogno di maggiore coesione. La forbice tra Nord e Sud ha ripreso ad allargarsi, come ha rilevato il recente Rapporto Svimez, e non è l'unico indicatore in questo senso. Le incognite relative all'autonomia differenziata, però, non riguardano soltanto gli aspetti sociali ed economici, pur rilevantissimi, a cominciare dagli ineffabili Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale. Altri interrogativi investono la dimensione istituzionale perché attraverso il sentiero delle «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» (art 116 della Costituzione) rischia di passare un cambiamento di fatto degli equilibri di sistema che potrebbe arrivare a investire addirittura la forma di Stato.
Il federalismo in sé non è una parolaccia, ma se fosse questo l'obiettivo bisognerebbe dirlo chiaramente sin da ora e passare per la porta principale delle riforme. E anche se questo non fosse l'obiettivo in senso stretto (sul termine federalismo ci sarebbe peraltro da intendersi), senza un approccio coerente e ordinato il processo messo in moto rischierebbe di sfuggire di mano anche a prescindere dalle intenzioni dichiarate o diversamente codificate. Oltre alle tre Regioni citate, hanno avanzato richieste Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania (a quanto emerge dal dossier Camera del 28 settembre). Se si aggiungono le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, la prospettiva – per il momento solo teorica, fortunatamente – è che l'eccezione diventi la regola. Occorrerebbero allora (e forse servirebbero già adesso) altri interventi di natura costituzionale, a partire da una sede di dialogo e di cooperazione, sulla falsariga di un Senato delle Regioni. Per non parlare della necessità, emersa in occasione della pandemia, di una “clausola di supremazia” statale per tutelare in ultima istanza l'unità rispetto alle spinte centrifughe fuori controllo.
Soprattutto, poi, ci dovrebbero essere i tempi e i modi per un grande dibattito, dentro il Parlamento e nel Paese. L'autonomia è una grande questione nazionale che coinvolge tutti gli italiani, non solo il rapporto tra le singole Regioni e lo Stato.
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