Maschere e costumi. Non per nascondere il vero volto di chi si è. Ma, al contrario, per scoprirlo. Per rivelare la natura autentica di un popolo e di una terra che nell’immaginario collettivo appaiono così diversi. Un altro volto dalla Sardegna da “copertina”, del mare da favola e del turismo a cinque stelle. Un’altra Sardegna che «naviga senza mare». Sì, Senza mare, quella che racconta la fotografa e giornalista Marina Spironetti nel suo volume (Crowdbooks, pagine 160, euro 32,00). Uno scrigno di tesori di un passato che continua fortunatamente e orgogliosamente a vivere. «Esiste una Sardegna aperta e un’altra chiusa. Una che abbraccia e una che resiste. Una terra di mare e una terra di terra, lontana dalle cartoline plastificate, dalle coste granitiche e dalle bianche spiagge. Esistono luoghi immaginifici che tramutano il sogno in rito e la sacralità in passione», scrive nel testo di apertura il musicista Paolo Fresu, che per i suoi sessant’anni ha appena pubblicato un triplo album – P60LO FR3SU (Tuk Music, euro 33,90) – dove la musica incontra le parole (sessanta, la prima è “Sard3gna”) e la fotografia. Anche nel suo cofanetto c’è un book fotografico, l’album intimo e giocoso di Roberto Cifarelli e un particolare scatto di Giorgia Rizzo, Still live, che dà la copertina al tributo a David Bowie del terzo cd, Heroes. Nel secondo, The sun on the sea (il primo è Heartland) Fresu canta il “mare”. Uno di quei «mari nei quali si può immaginare un approdo, ma questo può diventare senza fine e senza coste. È il Mediterraneo con i suoi barconi della speranza». Ma anche un «oceano inatteso fatto di suoni che navigano nella mente e che concedono un perenne miraggio in grado di disegnare un progetto di lontananze quale è The Sun on the sea». Soprattutto in questo tempo di pandemia che ha tracciato «la distanza più grande che si sia mai percorsa». Non è un caso insomma che a dare “voce” e “suono” ai meravigliosi scatti della Sardegna “senza mare” di Marina Spironetti – un «archivio visivo che coglie l’anima» - ci sia Fresu, nato a Berchidda. E che il cuore di quest’anima sia la Barbagia. Anzi le Barbagie. Le differenti culture di questo “non luogo” insulare.
Marina Spironetti ci accompagna in un viaggio ancestrale e contemporaneo allo stesso tempo, in una Sardegna passionale e intima, fra le maschere del Carnevale e i costumi della tradizione. «Iniziato nel 2016 e sviluppatosi nell’arco di circa quattro anni – spiega la fotografa milanese che lavora per importanti magazine e quotidiani internazionali – questo progetto nasce dal mio desiderio di raccontare l’unicità del territorio barbaricino e dell’entroterra in genere, e il profondo attaccamento del suo popolo a tradizioni secolari – e, in alcuni casi, addirittura millenarie; vuole essere un archivio visivo di un’estetica profondamente sarda e, su un piano personale, un viaggio di scoperta e di riappropriazione delle mie radici, sarde per parte di madre. In questi anni ho soggiornato in Barbagia in diverse occasioni, sempre in inverno, la stagione più lontana dal turismo e dall’immagine da cartolina che spesso si ha dell’isola, a sottolineare una terra “altra”, antica, lontana – geograficamente e storicamente – dal mare».
L’esordio è per sa Jòvia lardajola, il giovedì grasso di Gavoi scandito dal ritmo di centinaia di tamburi dei Tumbarinos che si radunano sul sagrato della chiesa di San Gavino dal primo pomeriggio, dando vita a un corteo di donne e uomini, avvolti nei loro cappotti di orbace e scialli neri, con i volti scuri di fuliggine. Il percorso in maschera continua con Su Battileddu a Lula, i Mamuthones di Mamoiada, i Boes e Merdules di Ottana, Sos Thurpos di Orotelli, Sa Maschera a Gattu e sos Maimones di Sarule.
© Marina Spironetti
Le maschere lasciano poi il campo ai costumi colorati tradizionali femminili. Indossati da donne giovani e fiere, dai volti illuminati e dagli occhi penetranti, raccontano la ricchezza e la forza dell’universo femminile sardo. I colori sgargianti di Bitti, i disegni geometrici di Desulo, l’austerità di Fiolinas, l’eleganza di Nuoro, città natale di Grazia Deledda, l’opulenza di Ollolai, e ancora la solennità di Orgosolo, il viola di Ottana, la semplicità di Sarule, le ricchezze antiche di Oliena. Ad Abbasanta «le morbidezze dell’ampia camicia bianca si stringono nel corpetto rosso, da cui si dipartono le pieghe della gonna in panno nero. La seta preziosa – scrive Spironetti – è quella del grembiule a fiorami e dell’ampio scialle, da indossare sul muccadore, il fazzoletto quadrato che raccoglie i capelli». Chiamata così per l’antica convinzione che le sue acque possedessero proprietà curative, oggi Abbasanta, oltre alle numerose sorgenti, conta sull’acqua «blu cobalto del vicino Omodeo, il lago artificiale più grande d’Italia, creato negli anni venti del secolo scorso con lo sbarco del fiume Tirso».
Una Sardegna di terra e acqua dolce. Che preferisce i costumi al costume. Che mette la maschera per rappresentare l’anima del tempo e della storia. Non per coprire, ma per scoprire un nuovo volto, inaspettato, misterioso. Vero.
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