Caro Avvenire, mentre papa Francesco da tempo, giustamente, condanna l'ideologia “gender”, perché anche i mezzi di comunicazione di ispirazione e ambito cattolico usano, anche più volte, l’espressione di “genere” anziché di “sesso”, visto che il rispetto è dovuto comunque a tutte le persone? Usare quel linguaggio, forse, è obbligatorio?
Angelo Pinna
Azzano San Paolo (Bg)
Caro Pinna, il linguaggio è in continua evoluzione, ma è anche vero che le parole sono importanti
(e non lo dice, con indignazione, solo Nanni Moretti nel film Palombella Rossa). E sono importanti adesso. Tanto più quando, come ha sottolineato lo studioso Giuseppe Antonelli, la lingua è diventata un campo di battaglia anche della politica, e si è accentuata l’attenzione all’hate speech, le espressioni di derisione, ostilità e disprezzo.
L’articolo 3 della Costituzione recita in effetti: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (il corsivo è mio).
Oggi, tuttavia, penso che anche padri costituenti saggi come quelli che hanno scritto la nostra Carta userebbero “genere”. Non per sostenere una teoria che quando diventa ideologia è sempre rischiosa, bensì per un cambiamento di sensibilità che ormai costituisce un dato di fatto nelle nostre società.
Luciano Moia, grande esperto della materia, ne ha scritto molto su “Avvenire”, a volte attirandosi critiche virulente e ingiuste da oltranzisti di un passato che, almeno per ora, non può tornare. Posso solo aggiungere che i mutamenti sociali si manifestano anche nel linguaggio e che all’inizio chi si fa portavoce di nuove istanze tende a forzare per ottenere spazio e considerazione. Con il tempo, se la proposta trova accoglienza, si arriva a un assestamento e si raggiunge un nuovo equilibrio sia lessicale sia di prassi condivisa.
Per rispondere alla sua domanda diretta, caro Pinna, direi che non è obbligatorio usare un linguaggio specifico se, come giustamente lei raccomanda, ciò che ci guida è il rispetto delle persone. Di qui discende, però, un’altra conseguenza importante. Se qualcuno chiede di essere chiamato in un certo modo, è più rispettoso seguire
la sua preferenza che imporre noi una nomenclatura, pur di lunga data o ritenuta da tanti più opportuna.
Certo, non si deve assecondare qualunque bizzarria o fare prevalere un conformismo intollerante di segno opposto al precedente. Proprio per questo, l’importante è che nessuno cerchi di prevaricare. Gli alfieri del gender sovente lo fanno nei confronti della religione cattolica.
Recentemente, una corte d’appello federale messicana ha dato ragione alla diocesi di Querétaro chiamata in giudizio da una persona transgender che voleva fare cambiare la propria identificazione sessuale sul registro di battesimo. I giudici hanno riaffermato l’autonomia della Chiesa nello spazio costituzionale del Paese. Mi pare una decisione che va nella direzione più sensata. E sarebbe stata un’imposizione sbagliata il contrario.
Ma se qualcuno vuole dichiararsi “non binario”, penso che ne abbia facoltà. E se si presenta all’Eurovision con una canzone manifesto in quel senso, come lo svizzero Nemo (poi vincitore), chi non lo apprezza può sempre cambiare canale. Con libertà e rispetto. Senza imposizioni da parte di nessuno.
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