A primavera aveva iniziato a zoppicare, impercettibilmente. Poi, a dimagrire. L'età dello sviluppo, disse il medico.
D'estate, sempre più magra, mia sorella si era fatta così pallida. A ottobre la ricoverarono. Niente, non trovavano niente. Ma io vedevo negli occhi di mia madre l'ansia, che la ossessionava. Infine, la diagnosi. Mia madre si trasferì nella stanza d'ospedale, io, otto anni, pretesi di seguirla. Ci svegliavamo all'alba, quando l'infermiera passava per i prelievi. Lucetta studiava il greco, sognando il suo banco di quarta ginnasio.
A dicembre sembrò stare meglio. Ma, implacabile, la metastasi. Mesi nell'ombra, le tapparelle abbassate. Lei dormiva, diafano il viso, la treccia nera sul guanciale.
Una sera mi mandarono a casa di amici. Tornai, il giorno dopo, da scuola, trionfante: «Mamma, ho preso nove in...» Le parole mi morirono sulle labbra. Il letto era vuoto. Una rosa rossa sul cuscino. Mia madre illividita, piegata su se stessa come un animale ferito. Mi gettai fra le sue braccia. Ma la sentii già lontana, irraggiungibile. Da tutta la vita ripenso a quel momento, e all'alienazione di mia madre, annientata dal dolore. L'ho amata tanto: e poi, da adolescente, odiata. Ora che ho dei figli, ora che so, vorrei poterla abbracciare: come, bambina, quel giorno in ospedale.
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