Ieri, dalle colonne di questo quotidiano, in occasione dell’ennesimo commento alla straordinaria scalata di Jannik Sinner verso il numero 1 del ranking mondiale, celebravo il suo ingresso definitivo nella costellazione dei grandi atleti azzurri che hanno avuto un impatto non solo sulla loro disciplina ma sulla società, che hanno saputo rappresentare i loro rispettivi decenni, che sono diventati fenomeni di costume e hanno innescato un “effetto” misurabile in popolarità, share televisivo, numero di tesserati della rispettiva disciplina e così via. Negli ultimi cinquanta anni citavo – e lo rifaccio con piacere – Pietro Mennea, Alberto Tomba, Marco Pantani e Valentino Rossi. Tutti uomini. Già, tutti uomini. Me ne sono chiesto il perché, e voglio tentare una riflessione su un aspetto, non solo latente, ma scalpellato nella nostra mentalità, di sport inteso come un affare per uomini. Perché? Non sono certamente mancate le vittorie, nello sport femminile. Anzi, in particolare negli ultimi anni, le donne hanno vinto molto più degli uomini. Forse le donne sono state più protagoniste negli sport di squadra degli uomini (le “farfalle” della ritmica, le ragazze della pallavolo, senza dimenticare l’“effetto” –purtroppo molto limitato nel tempo – generato dallo splendido percorso delle calciatrici alla Coppa del Mondo del 2019). Non sono certo mancate le donne che in sport individuali hanno trionfato in maniera del tutto simmetrica a Mennea, Tomba, Pantani, Rossi e Sinner. Manca giusto una rappresentante negli sport motoristici, ma nelle stesse discipline potrei citare Sara Simeoni, Deborah Compagnoni, Sofia Goggia, Federica Brignone, Antonella Bellutti, due volte oro olimpico nel ciclismo, poi capace di passare al bob e alla sfida alla presidenza del Coni, Elisa Longo Borghini reduce da una vittoria passata quasi inosservata al Giro delle Fiandre dopo undici medaglie fra Europei, Mondiali e Giochi Olimpici. E che dire, proprio nel tennis, di Francesca Schiavone e Flavia Pennetta vincitrici di tornei del Grande Slam rispettivamente 14 e 9 anni prima di Sinner? E potrei andare avanti, restando sempre e solo nel perimetro degli ultimi cinquanta anni, con Josefa Idem, Maria Canins (anche lei capace di eccellere in due discipline, lo sci di fondo e il ciclismo), Stefania Belmondo, Manuela Di Centa, Alessandra Sensini e forse, perché ogni classifica è sempre arbitraria, le due regine assolute: Valentina Vezzali e Federica Pellegrini. Se dovessimo mettere in una stessa stanza tutte le medaglie vinte da queste atlete servirebbe il caveau di una banca. E allora perché resta questo gap che non è certamente tecnico o di prestazione, ma narrativo? La domanda forse non ha risposta univoca, ma sulla domanda occorre interrogarsi. Certamente c’è un retaggio secolare di sport come “fatto per uomini”, altrettanto certamente – pur con felici eccezioni– lo sport è ancora raccontato principalmente da uomini e con un linguaggio fortemente maschile. Soprattutto lo sport, inteso nella sua governance, è ancora oggi in modo adamantino un affare per uomini: 76 su 78 organismi che dirigono lo sport (Coni, Federazioni, Enti di promozione sportiva, Discipline associate) sono presieduti da uomini. Bisogna incominciare proprio da lì, dalla governance, perché finché qualcosa non cambierà lì difficilmente cambierà tutto il resto, narrazione compresa.
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