Se è plausibile il tentare, come raffigurare il silenzio? Quale forma visiva mai poter dare a quel che non è detto, né dicibile?
Sfida sin troppo ambiziosa, vincere la quale parrebbe impossibile. Max Ernst ci si cimentò creando un quadro, L’occhio del silenzio, feroce sconvolgente e ardito come solo può esserlo un’opera d’arte. Composto a cavallo tra il 1943 e il 1944, esprime tutto lo sgomento dell’atroce frangente a livello mondiale. Ernst usò la tecnica della cosiddetta “decalcomania” per ottenere l’effetto voluto: un verde fosforescente, quello della forma surreale (surrealista) scontornata al centro dell’immagine, e sullo sfondo una parete di roccia. Il verde, un magma cangiante dentro cui si palesano occhi. Quadro che turba e a suo modo disturba, provoca sgomento e sconcerto come potrebbe un silenzio abissale. Sono i contrasti a generare le impressioni: se nel quadro campeggiasse solo la strana materia verde, magmatica e fosforescente, o invece la sola scura parete rocciosa, verosimilmente l’effetto non sarebbe stato lo stesso. Sta nella composizione il colpo di genio del pittore: gli occhi come feritoie socchiuse in mezzo allo stranissimo insieme, e il silenzio un’eco muta, che rimbomba, surreale e spettrale, lasciando dietro sé la potenza del suo monito atterrito.
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