Chiamo al telefono uno dei figli, che ha 26 anni e insegna in una scuola superiore. È l'ora della fine delle lezioni e sento di sottofondo il chiasso festoso dei ragazzi che si alzano dai banchi ed escono, chiamandosi, ridendo. Poi, più forte, vicina, la voce di un alunno: “Professore, ha un minuto?” Di colpo realizzo che quel ragazzo sta parlando con mio figlio, e lo chiama “professore”.
Giusto: insegna, dunque è un professore. Ma che folata di sbalordimento mi ha traversato il cuore, in una frazione di secondo. Professore, tu? Ti rivedo, a pochi mesi, gli occhi nerissimi e lieti, le guance paffute. E poi al mare, nelle prime estati, gelosamente avvinto al tuo coccodrillo gonfiabile; e la prima recita all'asilo, il papillon sulla camicia bianca. E, la mattina al mare, che hai imparato ad andare in bici. E l'infinita serie di influenze e febbri e giochi e vacanze, e domande, e abbracci. Rivedo tutto questo in un istante, come in un file supercompresso. E ora, ti chiamano “professore”? (Con quel tono un poco timoroso che hanno i ragazzi, con un severo insegnante di italiano).
Sbalorditivo. Tu sei per me ancora quello che a due anni ha rubato dalla cucina un pollo arrosto, e ti ho trovato nascosto dietro al divano che lo addentavi, beato. Tu sei, stampato nella mia memoria, quello. (La memoria delle madri, è un pozzo profondo). Professore? Sorrido: se solo i tuoi alunni sapessero.
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