Di recente ho voluto rivedere lo sceneggiato televisivo dedicato al pittore Antonio Ligabue che, come non raramente succede ai figli della strada, dà uno scossone alla tossicolosa cultura dell'arredamento intellettuale. Mi scatta il ricordo della raccolta poetica di D.M. Turoldo, «Io non ho mani», prefatta da Ungaretti. Il titolo è l'inizio del verso: «io non ho mani che mi carezzano il volto, la sera». È il tema della solitudine affettiva. Ecco cosa c'entra Ligabue che, vanamente, supplicò un bacio, come Van Gogh e Giacomo Leopardi. Viene da interrogarsi sul rapporto tra solitudine affettiva ed eccezionalità. Ligabue ha fatto del proprio autoritratto, quasi una poetica. Le sue rughe intarsiate, come in una crocefissione nord europea, lasciano trasparire l'animo. Altri uomini in umana solitudine affettiva, scavano essi pure ma questa volta dalla parte del cielo. Senza scomodare le scritture, faccio riferimento direttamente ai mistici della tradizione ortodossa; parlo di Serafino in Siberia e di Silvano sul monte Athos. Una notte la cella di Serafino, rifulge della luce propria della santità. In questo scavo verso il cielo, i solchi e le rughe sono sostituiti dai raggi di accecante luce, promananti da sé.
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