Ho a casa, in uno scaffale alto, una grossa scatola di cartone colma di lettere. La carta è ingiallita, la data è 1942, sulle buste i timbri della censura fascista. Ogni giorno dal fronte russo, prima della disfatta, mio padre, alpino, scriveva alla fidanzata. Era estate ancora, la steppa un oceano d'erba che iniziava a ingiallire. L'inchiostro nero della penna sulla carta non raccontava di scontri a fuoco o eroismi. Ma preferiva dire di un cappello di pelo di coniglio ricevuto dalla madre, dell'amicizia con un compagno del Sud, del gran silenzio delle notti sulla steppa. Solo fra una riga e l'altra, una volta, il sottotenente Corradi confessò il sogno che lo animava in quei mesi in Russia. Immaginava se stesso e Anna, mia madre, finita la guerra, in una piccola casa: «Noi due, due bambini e un gatto». Sono semplici, i sogni di un soldato che vede la morte da vicino. Noi due, due bambini e un gatto. Io, la terza figlia, nacqui tardi. Il gatto me lo regalarono perché la casa, scomparsa mia sorella adolescente, era così terribilmente silenziosa. Ora che so che ci sono guerre che non finiscono mai, ripenso all'alpino che scriveva dal fronte con la tenerezza con cui penserei a uno dei miei figli. Come se, in un gioco di specchi nel cuore, la madre di mio padre fossi io.
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