Ti ho aspettato per nove mesi. Come fosse ieri ricordo il primo tuo movimento in me, quasi impercettibile, come il fluttuare di un piccolo pesce. E il travaglio, in una notte gelida come questa. Era il 2 di marzo. All'alba il tuo primo vagito, mentre il cielo della steppa schiariva.
La notte piangevi, ed ero sempre io a svegliarmi. (Le donne, per quel pianto, hanno un udito più fine). Ti ho tenuto per le braccia quando imparavi a camminare. Poi, il trottare del tuo piccolo passo veloce nel corridoio lo sento ancora, nel silenzio di questa casa. E la prima bicicletta, per Natale; e finalmente, quando la neve in cortile si è sciolta, hai imparato a pedalare. Ginocchia sbucciate, notti con la febbre, la tua mano che esitante tracciava le prime lettere su un quaderno - proprio qui, su questo stesso tavolo in cucina.
Sei diventato più alto di tuo padre, un gigante buono. Un giorno, in paese, ti ho intravisto mano per mano a una ragazza. Allora ho sognato, per un attimo, un bambino che ti somigliasse.
A vent'anni sei partito, soldato. Mi rassicuravi col tuo sorriso: non vedi, mamma, come sono forte?
Ma, più niente. Per settimane. Tuo padre: “Tranquilla”. Io, però, già sapevo. Un telegramma, ieri, da Mosca: “Autorizzazione all'inumazione”. Nient'altro. Non una parola di dolore, per te. Che eri, e sei tornato per sempre, il mio bambino.
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