Milano, marzo 2008 - Le otto di sera. Nelle case di fronte la gente è a cena dietro le finestre illuminate. Qui, nel reparto non autosufficienti di una casa di riposo, le luci sono già spente. Nessuno, nei corridoi odorosi di disinfettante. I ricoverati dormono, le sbarre del letto rialzate. Sui comodini pile di pannoloni, come quelli dei neonati, solo più grandi. Ottant'anni, tra un'infanzia e l'altra. Ma nessuno vezzeggia questi vecchi bambini, così ossuti, sgraziati. Nel sonno uno si agita: «Mamma! Vieni!», grida. Dalla stanza degli infermieri voci basse, risate - la vita che si insinua in questo limbo, clandestina. Le lancette dell'orologio a muro, immobili. L'ossigeno scorre con un suono d'acqua. La paziente più anziana respira a fatica. A tratti alza il busto, contrae le mani, nel fiato che manca. Il volto estenuato sembra chiedere pace; ma il cuore non si arrende, e batte disordinato, e fa sussultare il magro petto. Il cuore riottoso si ostina, scalcia - come se tutto, in noi, si ribellasse alla morte.La paziente più anziana è mia madre, e io la veglio attonita: rivedendo i suoi begli occhi, e la mano che stringeva la mia, da bambina. (Stanotte, è come se mi venisse strappata da sotto i piedi la terra).Lei, all'alba, in pace - il volto pallido da Madonna antica.
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