Sempre difficili e delicati i contrasti di tipo "confessionale" tra un ente religioso e i suoi dipendenti, quando questi non rispettano l'ispirazione chiaramente religiosa della struttura. Sulle possibili soluzioni, oltre i buoni uffici delle organizzazioni sindacali, fanno premio le sentenze dei tribunali in tema di discriminazioni sul posto di lavoro. Sui rapporti di lavoro "difficili", a iniziare dai requisiti richiesti per l'assunzione, è intervenuta il 18 aprile scorso una sentenza della Corte di Giustizia europea (causa C n. 414/16), che fornisce alcuni indirizzi di rilievo e che – precisa la Corte – possono superare la normativa italiana.
Il divieto di discriminazione e la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro trovano precise regole già nella direttiva europea 2000 del 1978. La Corte di Giustizia aggiunge ora che la direttiva, tuttora vigente, deve essere interpretata seguendo i principi della "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea".
Alla luce di queste disposizioni, è legittimo che una Chiesa, oppure una organizzazione la cui etica abbia carattere religioso, possa legittimamente richiedere al suo personale un requisito connesso alla religione o alle convinzioni personali, ritenuto essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività lavorativa (il merito della sentenza è stato sul rigetto ad una candidatura ad un posto di lavoro presso una struttura religiosa). L'ente può quindi utilizzare questa premessa a sostegno di provvedimenti di gestione del personale, con proporzionalità e sempre garantendo la possibilità di un effettivo controllo giurisdizionale. Il criterio della proporzionalità bilancia il divieto di discriminazioni per motivi religiosi e il diritto delle Chiese al rispetto della propria autonomia.
Va inoltre aggiunto che non si possono includere nelle controversie sulla materia considerazioni estranee all'etica o al diritto all'autonomia dell'organizzazione interessata.
Da ultimo la Corte si esprime sulle vertenze tra privati. In questi casi il giudice nazionale, qualora non gli sia possibile interpretare il diritto nazionale alla luce della direttiva 2000/78, è tenuto ad assicurare prioritariamente la tutela che spetta ai cittadini europei prevista dalla "Carta dei diritti dell'Unione" e, all'occorrenza, disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria.
Già nel 2010 la stessa Corte si era pronunciata sul contrasto tra organismi di tendenza e i rispettivi dipendenti per motivi riferibili alla loro vita privata (sentenze n. 1620/03 e n. 425/03).
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