Il principio della «leale collaborazione» fra le istituzioni ricorre frequentemente nelle sentenze della Corte costituzionale. È un parametro di valutazione, un criterio interpretativo che spesso trova applicazione nel contenzioso tra Stato e Regioni. Lo abbiamo visto citato, per fare un esempio di stretta attualità, nel giudizio su una legge della Valle d'Aosta che aveva derogato alla normativa nazionale anti-Covid. Giudizio, lo ricordiamo per inciso, in cui è stato ribadito che le misure contro la pandemia sono di competenza dello Stato. Nel testo della Carta costituzionale l'espressione «leale collaborazione» compare una volta soltanto, laddove si parla dei poteri sostitutivi del Governo nei confronti delle Regioni, vale a dire nel secondo comma dell'art.120 così com'è stato riformato nel 2001. Prima non ce n'era traccia letterale. Eppure il principio era già ben presente in quelli che uno studioso ha definito «gli strati profondi dell'edificio costituzionale». La giurisprudenza della Corte lo ha fatto progressivamente emergere in maniera sempre più nitida ed è almeno da alcune sentenze degli anni Ottanta che esso ha assunto un rilievo di vero e proprio "principio". Del resto la «leale collaborazione» non riguarda soltanto i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie, ma è centrale nei rapporti tra tutte le istituzioni. In un certo senso è l'altra faccia del principio della separazione dei poteri, fondamento di tutte le moderne democrazie (quelle vere), e non a caso è rilevante anche in altri ordinamenti oltre al nostro. Persino il Trattato dell'Unione Europea, all'art.13, richiama il dovere della «leale cooperazione reciproca» tra le istituzioni della Ue. «Separazione e cooperazione tra poteri - ha affermato l'allora presidente della Consulta, Marta Cartabia, nella relazione annuale tenuta il 28 aprile 2020 - sono due pilastri coessenziali che reggono l'architettura costituzionale repubblicana. L'indipendenza reciproca tra i poteri non contraddice la necessaria interdipendenza fra gli stessi, specie in società ad alto tasso di complessità, come sono quelle contemporanee». Il principio di «leale collaborazione», ha ribadito in quell'occasione l'attuale ministro guardasigilli, è una «condizione fondamentale per un corretto funzionamento del sistema istituzionale e della forma di governo». Dal punto di vista giuridico il discorso è chiaro e fortemente impegnativo. Ma a fronte di argomenti così stringenti sul piano costituzionale, come non pensare che sia necessaria una qualche forma di «leale collaborazione» anche a livello strettamente politico? Certo, si tratta di piani diversi. La competizione tra partiti corrisponde alla fisiologia di un sistema democratico, non è un'anomalia. Tuttavia, e tanto più oggi nella concreta situazione di un governo sostenuto da forze profondamente diverse tra loro, la lezione costituzionale offre una chiave di lettura che può andare oltre l'ambito giuridico. Viene spontaneo accostare questa riflessione a quel passaggio del discorso programmatico di Mario Draghi in cui si sottolinea che per il nuovo esecutivo «nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità, ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell'avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità». La nostra Repubblica ha un gran bisogno di «leale collaborazione». Ne ha bisogno nei rapporti tra le istituzioni, particolarmente nella lotta alla pandemia, e ne ha bisogno nei rapporti tra i partiti, soprattutto tra quelli a cui va dato atto di aver accettato la sfida di un Governo sui generis. Ora, però, essi devono dimostrare che la loro scelta non è stata strumentale e che sostengono l'esecutivo per dare un contributo originale all'impresa comune. Non per lucrare vantaggi pensando soltanto alle prossime elezioni.
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