«Per me la bugia non era altro che una diversa modalità dell'immaginazione, un modo per dilatare il reale. E questo, in definitiva, è ciò che mi ha spinto a fare cinema». Con straordinaria lucidità l'unico regista cinematografico italiano di oggi all'altezza della tradizione dei giganti (da De Sica a Fellini), Pupi Avati, descrive la nascita e la realtà del cinema. Attinge - con la quieta ironia e la non ostentata, poiché da decenni metabolizzata, cultura che anima i suoi film - a una riflessione storica sulla finzione nella creazione dell'opera d'arte. Da Shakespeare sappiamo che solo lo spettacolo mette a nudo la coscienza del re, svela il vero. E che quindi, il regista, come lo scrittore, deve inventare una sorta di "bugia" per poter esprimere il reale stato di cose. Nel cinema questa natura bugiarda dell'artefice deve essere necessariamente più accentuata, per la caratteristica del mezzo: il poeta e il narratore usano le parole, incorporee per definizione, il regista cinematografico usa materiale umano, persone fisiche che recitano, parlano con la loro voce (o quella dei doppiatori, sempre umana e fisicamente reale). L'occhio del regista deve dunque dilatare il reale, non limitarsi a rappresentarlo, a filmarlo nella sua pura realtà documentaria. Da qui le lodevoli e salutari finzioni del bugiardo Avati.
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