Come può un prete vivere il proprio sacerdozio? Come può mantenere viva e coltivare la propria vocazione? Per dirla in maniera semplice, come può un prete essere bravo prete? E soprattutto: chi è un bravo prete? Di questo, uno dei temi a lui più cari, Papa Francesco ha parlato diffusamente nell'incontro con circa duemila studenti – tra seminaristi, diaconi e sacerdoti – dei Collegi ecclesiastici romani, incontro avvenuto nel marzo scorso ma il cui testo è stato pubblicato solo martedì scorso. Ed è un testo importantissimo, non solo per i diversi spunti che offre, ma forse soprattutto per l'idea di fondo sulla essenza del sacerdozio che si delinea attraverso questa ricchezza di suggestioni. A partire dal fatto che, quasi automaticamente, il primo tratto identificativo del prete-discepolo è la missionarietà, e «il missionario è in cammino. Se tu sei prete, non puoi essere un prete “quieto”, un prete da sacrestia, da ufficio parrocchiale, un prete che ha scritto sulla porta: “Si riceve soltanto lunedì, mercoledì, venerdì da tal'ora a tal'ora” e “Si confessa il tal giorno da tal'ora a tal'ora”: peccate prima, perché dopo non si confessa. Non si può. Tu sei in cammino». C'è, nel discorso di Bergoglio (articolato in cinque risposte ad altrettante domande postegli da alcuni dei presenti), il richiamo all'ascolto e alla preghiera, l'esortazione alla fraternità e al “farsi piccoli”, all'accettare di farsi accompagnare per meglio resistere alle seduzioni della mondanità soprattutto quando iniziano a scatenarsi i “demoni della vita” (il “demonio meridiano”, il “cuarentazo” come lo chiamano in Argentina, il diavolo “della mezza età” che si presenta in mezzo a «tante altre difficoltà, tutte nate dal peccato originale e dalla tentazione»). Ancora, nel discorso, c'è l'incoraggiamento ad accettare a viso aperto la sfida del celibato, a essere portatori di gioia, a vivere sempre uniti allo Spirito: «Tanti, tanti preti, tanti preti, lo dico con buono spirito, con tenerezza e con amore – ha detto a quest'ultimo proposito – tanti preti vivono bene, in grazia di Dio, ma come se lo Spirito non esistesse. Sì, sanno che c'è uno Spirito Santo, ma nella vita non entra... la bontà sta sempre nella bontà interiore unita al dialogo con lo Spirito». E, quando c'è, lo Spirito Santo porta anche «il senso dell'umorismo». «Per capire se una persona è arrivata a una grande maturità spirituale, domandiamoci: “Questo ha senso dell'umorismo?”. È l'atteggiamento umano più vicino alla grazia».
Ma, come detto, ancora di più rispetto alle singole indicazioni, a colpire nel discorso del Pontefice è l'idea sottesa alle sue parole. L'idea che può essere sintetizzata in due sostantivi che Bergoglio non pronuncia mai nel discorso ma ne sono le colonne portanti. Il primo è vocazione, ovviamente, che è l'origine di tutto e a cui tutto va sistematicamente e continuamente ricondotto, e che è quel che fa alla fine la differenza tra “mestiere” e “ministero”. Il secondo sostantivo, probabilmente meno scontato, è dedizione. Ovvero l'impegno indispensabile richiesto a ciascuno per mantenere sempre viva la vocazione originaria, perché senza questa attitudine, senza questa cura, che si possa disperdere il proprio patrimonio, più che un rischio è una certezza. È in questo modo che si diventa “funzionari del sacro”, “impiegati di Dio” che “fanno il loro mestiere” ma “non sanno dare vita”. Ed è così che si comprende l'importanza di una vera “formazione permanente”, per dare senso e profondità alla scelta compiuta.
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