Quando finisce il bello, il resto è mancia. Rimangono le persone però, quelle che il bello se lo portano dentro come una giacca sul braccio. I puri, gli uomini buoni. Uno di loro si chiamava Lino, e oggi non c’è più. Se lo è portato via una notte d’autunno, dopo una giornata qualunque. Ricordo che amava il Genoa e il nuoto, Barcellona, gli sport minori e le cose al loro posto, il treno che lo portava a Milano e il suo lavoro di giornalista sportivo per il quale aveva studiato e lasciato i genitori a Varazze, insieme a molte delle sue certezze. Aveva 40 anni Lino, troppo pochi per chiudere la porta della redazione e non tornare mai più. La mattina che non si è svegliato, non restai incredulo tanto dall’idea che non ci fosse più, quanto dal fatto che fosse in ritardo. Senza un perché non aveva riaperto gli occhi, come se un perché potesse esistere. Compagno di scrivania e di tastiera, un’anima candida, diritta, precisa, incapace di compromessi e scorciatoie. Si emozionava per poco, mi regalava entusiasmo, era il “vice” perfetto per il capo che non ero capace di fare. Per ricordarmelo, da allora ogni anno l’8 ottobre vado a salutarlo al cimitero davanti al mare. Per guardarlo in una foto, per abbracciare gli occhi ancora umidi di Sunti e Bruno che lo aspettano sempre, scavati dal male più grande che esista, quello di sopravvivere ai propri figli.
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