Le missioni sono cambiate ma non sono certo finite
martedì 19 novembre 2024
Una nuca canuta di buon mattino accende la mia curiosità varcando la soglia della cappella della Conferenza episcopale. Appartiene a don Sandro de Pretis, originario del Trentino, quasi settantenne, già missionario in vari Paesi africani, ora di nuovo in Papua Nuova Guinea per la diocesi di Aitape. Dove tutti ricordano il grande lavoro dei francescani australiani, ma anche di un nutrito gruppo di emiliani e romagnoli nella seconda metà del secolo scorso e i primi anni di questo. I missionari italiani in Papua Nuova Guinea non sono mai stati molti, forse mai più di due o tre decine sommando ai francescani alcuni verbiti, salesiani, il Pime dal 1981, alcune religiose e pochi altri. Vent’anni fa, tuttavia, eravamo ancora una decina solo nella diocesi di Alotau, cinque da Bergamo. Tre delle diciannove diocesi della Papua Nuova avevano vescovi italiani. Ora ci contiamo e ci fermiamo a undici, comprese due suore sud-tirolesi, ormai pensionate, che si limitano a scherzare e a dire che per loro solo il passaporto è italiano. Non il sangue. Eppure l’unica forma di relazioni che si sia mai sviluppata tra l’Italia e la remota Papua Nuova Guinea è quella dei missionari. Niente commerci o scambi culturali, men che meno, per fortuna, rapporti o scontri militari. Dall’Italia qui sono arrivati proprio solo i missionari cattolici. I primi nel 1852, dopo un anno e mezzo di navigazione, da Milano, alcuni coinvolti quattro anni prima nelle Cinque Giornate. Lombardi, ma strettamente parlando, a quel tempo ancora cittadini irrequieti dell’Impero Austro-Ungarico. Fra qualche anno le presenze scenderanno ancora di più, ma per ora il ritorno di don Sandro, porta a quattro il numero dei sacerdoti italiani ancora presenti nel Paese aggiungendosi, la sua parlata trentina, a quella romagnola, bergamasca e lecchese. I missionari fratelli laici sono due da Brescia e Bologna. Le religiose cinque. Nessuno è nato e cresciuto fuori dal bacino fluviale del Po. Per i missionari non sarebbe niente il calo numerico se compensato da una crescita corrispondente del clero e della leadership locale. Purtroppo, rispetto a molti altri territori di missione, la Papua Nuova Guinea in questo fa eccezione. È uscito l’annuario 2024 della Chiesa Cattolica in Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, ventidue diocesi in tutto. Qualche curioso è andato a spulciare il numero dei preti in questa edizione e quella del 2020. Ne abbiamo persi quasi cento, in media quattro per ogni diocesi, missionari stranieri morti o invecchiati, locali venuti meno per vari motivi e non adeguatamente rimpiazzati. E che dire dei fratelli laici e delle religiose? Ancora peggio, soprattutto per i primi. Decine di villaggi e parrocchie in alcune diocesi (Aitape, Bereina, Madang...) sono senza prete da che i missionari tedeschi, olandesi, francesi, americani, australiani non vengono più. Gli asiatici e gli africani solo in parte compensano. I locali arrancano. La gente sbanda sia dal punto di vista umano che religioso. Qui la fondazione della Chiesa (plantatio ecclesiae), idea teologico-pastorale centrale delle missioni moderne, ma liquidata dai teologi da mezzo secolo, è rimasta a metà. Come un virgulto che potrebbe crescere bene ma non riceve acqua e sole a sufficienza. I giovani, in Europa, non si entusiasmano più per la nostra vocazione. E si capiscono i cambiamenti sociali e culturali nel frattempo intervenuti. Ma non avremmo mai dovuto dire che le “missioni” sono finite. Forse da alcune parti, ma non ovunque. Oppure “cambiate”, ma non finite. © riproduzione riservata
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