Se n'è andata, lieve come la neve, Junko Tabei. Il nome non è di quelli che immediatamente fanno scattare un cordoglio virale che, ci piaccia o no, è il modo di celebrare persone e imprese di questi anni 10 del XXI secolo. Non troverete dunque migliaia di post o tweet per celebrare l'addio a una donna giapponese di 77 anni che questo mondo, almeno un po', lo ha cambiato.
La sua traccia, l'impresa per cui Junko Tabei è passata alla storia, è quella di essere stata la prima donna a salire in cima alla montagna più alta del pianeta. Lo fece dopo cinque anni di durissima preparazione a seguito di un'idea, venuta a un giornale e a un canale televisivo giapponese, di organizzare una spedizione esclusivamente femminile per arrivare in cima agli 8.848 metri del Monte Everest. Tabei fu una delle quindici donne selezionate e che accettarono la sfida di scalare quella montagna gigantesca, la cui cima sarebbe stata raggiunta solo dopo essersi arrampicate su versanti ben più impervi e aver raggiunto vette apparentemente inarrivabili, rappresentate dai pregiudizi della società giapponese degli anni 70 del Novecento («Ci dissero così tante volte che avremmo dovuto stare a casa a crescere i nostri figli!»).
Tabei, una laurea in letteratura inglese, fondatrice di un club alpinistico per sole donne, una buona dose di determinazione, lo fece mettendosi testardamente a capo della sua cordata senza farsi intimorire dal gigante, dalla sfida, non rinunciando mai, neppure dopo essere rimasta incosciente per alcune ore poiché travolta dalla valanga che aveva seppellito il campo a 6.300 metri di altitudine. Stringendo i denti e fendendo la roccia, Junko Tabei conquistò la cima dell'Everest il 16 maggio del 1975: «Chiodo che sporge, verrà martellato», recita un proverbio giapponese caro all'alpinista. Resta da decidere se lei sia stata un chiodo o il meraviglioso strumento capace di piantarne un altro, più forte, rivoluzionario. Quel chiodo sporgente capace di cambiare la storia, per essere esploratrice davvero, mica soltanto di altezze. Esploratrice di abissi dell'animo umano, di battaglie di uguaglianza di genere, di dimostrazioni di forza, determinazione, coraggio, volontà rispetto a chi avrebbe preferito vederla a servire una tazza di tè verde.
Molti uomini e molte donne hanno cercato di raggiungere la cima di quella montagna impressionante, la più alta di tutte, che può essere al tempo stesso bella e mistica, imprevedibile, mai semplice, anzi sempre incredibilmente difficile. Vengono alla memoria le parole di un ispirato John Fitzgerald Kennedy, che nel 1961 per convincere il Congresso a finanziare il programma Apollo per portare l'uomo sulla Luna entro la fine di quel decennio, disse: «Vogliamo andare sulla Luna proprio perché è difficile, perché questo obiettivo ci servirà a misurare il meglio delle nostre energie e capacità, perché questa è una sfida che vogliamo accettare, che non vogliamo posticipare e che intendiamo vincere». Un uomo andò sulla Luna, una donna in cima all'Everest che le fornì l'abbrivio per continuare a salire.
Dopo la montagna più alta, Tabei affrontò altri giganti, completando le Seven Summits, ovvero conquistando la cima più alta di ogni continente. Una continua ascesa, verso i vertici della Terra, di cui l'Everest è "solo" il più alto, quasi a toccare le stelle, meravigliosa metafora fra fatica ed elevazione spirituale che, forse, trova la sua magica definizione in "6897 Tabei", l'asteroide che Antonin Mrkos, astronomo ceco, le intitolò nel 1987.
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