giovedì 7 aprile 2016
Milano, aprile – Quando sui banchi dei mercati vedo le piante di prezzemolo e rosmarino e salvia, torna la tentazione: un orto, come sarebbe bello un orto, in campagna, come quello della signora Iride, la nostra vicina ottantenne in Monferrato che ancora, al mattino presto, vedo china e intenta sulle sue insalate. Lattuga e piselli, cavolfiori trionfanti, e siepi di ribes; e, in un angolo, lavanda, e io che non passo mai senza strofinare due dita contro una foglia, a annusare inebriata. Quando i figli erano bambini, in campagna ho provato, a fare l'orto. Individuai una piccola area ben esposta al sole. Degli amici mi spiegarono: prima devi dissodare il terreno. Dissodare, cioè? chiesi io, irrimediabilmente milanese. Cioè rivoltare il terreno con una vanga, a renderlo morbido. Dopo mezz'ora avevamo già le vesciche alle dita, e, io, la schiena a pezzi. E sì che erano solo tre metri per due. «Che fatica doveva essere una volta, lavorare i campi», si meravigliò un figlio. Avevamo, se non altro, imparato qualcosa. Andammo entusiasti a comprare le sementi: abbastanza per un ettaro. Patate, lattuga, pomodori, cipolle e aromi: io dirigevo i bambini nelle operazioni di semina con in mano un grosso tomo, "La cura dell'orto". La signora Iride e le altre donne del vicinato dal cancello ci guardavano e, chissà perché, sorridevano. Il vero problema con l'orto, mi venne detto, è innaffiarlo regolarmente. Allora comprai un piccolo sistema di irrigazione automatica, che ogni sera, noi assenti, lo avrebbe bagnato. Tornammo la settimana dopo, e trovammo l'insalata tutta smangiucchiata da non so quale coleottero maligno. Agli insetti, non ci avevo pensato. Ripresi in mano la mia bibbia di orticoltura e passai tutta la notte a leggere, in un crescente turbamento: bruchi, larve, acari, pidocchi, è incredibile quante bestiacce insidiassero le mie colture. Capii allora l'avvento dei pesticidi. Ero tentata perfino di spargere una nube chimica sul mio possedimento. Non lo feci, ma lottai per mesi contro cocciuti parassiti. Le vicine, cui domandavo lumi, credo si divertissero un mondo. Verso giugno qualche pallido pomodoro, delle sparute verdure spuntarono nell'orto. I figli però non volevano mangiarle: si erano affezionati, nel vederle germogliare. Poi, l'estate del 2003 fu torrida. Per la siccità venne proibito l'uso dell'acqua per l'irrigazione. Quando tornammo, ad agosto, l'orto era un cimitero di pomodori stecchiti. Non ci ho più riprovato, con l'orto. I figli, però, se ne ricordano ancora. Si ricordano del giorno in cui raccogliemmo le patate: che stupore nei loro occhi, nel trovare delle patate, delle vere patate, sotto la terra, e non nei banchi del supermercato. Di modo che, vado cogitando testarda fra me, ci ritenterò un giorno, con l'orto. (Sapendo che ciò che mi occorre davvero per rifarlo, in verità, è semplicemente un nipote).
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