Fino al 4 febbraio, la mostra “Teatralità” di Patrizia Mussa a Palazzo Reale a Milano. In foto, il Teatro alla Scala, Milano - © Patrizia Mussa
Fin dal 1598, all’interno del Palazzo Reale era in funzione il primo teatro stabile di Milano, denominato Salone Margherita in omaggio all’arciduchessa Margherita d’Austria, ospite a Palazzo Reale del governatore spagnolo Juan Fernandez de Velasco, durante il viaggio che l’avrebbe condotta a Valencia per sposare ufficialmente, nel 1599, Filippo III, diventando regina di Spagna e Portogallo e nonna materna del Re Sole. Un teatro di corte che restò in vita, dopo vari rimaneggiamenti, e con gli Asburgo, subentrati agli spagnoli nella guida della città, fino al 24 febbraio del 1776, quando l’ennesimo incendio lo distrusse completamente. Maria Teresa d’Austria decise allora di non ricostruirlo all’interno della residenza reale ma di “donare” un nuovo teatro alla città: fu così rasa al suolo la chiesa di Santa Maria della Scala e sull’area costruito, su progetto del Piermarini, il Teatro alla Scala, inaugurato nel 1778 e giunto nella sua bellezza fino a noi. A ricordare questo aneddoto storico è il direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina, inaugurando, in concomitanza con l’apertura della stagione scaligera, la mostra di Patrizia Mussa Teatralità - Architetture per la meraviglia. Palazzo Reale torna così a farsi... teatro. Teatro di teatri.
Fino al 4 febbraio, la mostra “Teatralità” di Patrizia Mussa a Palazzo Reale a Milano. In foto, il Teatro alla Scala, Milano - © Patrizia Mussa
A cura di Antonio Calbi, promossa da Comune di Milano-Cultura, prodotta da Palazzo Reale e Studio Livio, con il sostegno di Gemmo Spa, la mostra resterà aperta fino al 4 febbraio nelle dieci sale dell’Appartamento dei Principi. Dopo Milano, la mostra sarà a Matera, al Museo Nazionale, nel seicentesco Palazzo Lanfranchi; a Villa Zito, a Palermo, grazie alla Fondazione Sicilia; all’Accademia di San Luca a Roma, a Parigi, presso il settecentesco Hôtel de Galliffet, sede dell’Istituto Italiano di Cultura, per proseguire in altre città italiane.
Sessanta immagini di grande formato che restituiscono un percorso di analisi della teatralità in architettura: dai primi teatri di Vicenza, Sabbioneta e Parma - che segnano il passaggio dai teatri di corte agli edifici veri e propri - al Teatro alla Scala di Milano, dal San Carlo di Napoli alla Fenice di Venezia, dal Teatro Argentina di Roma al Massimo di Palermo, insieme ad alcune architetture che testimoniano la vocazione “teatrale” di certa progettazione italiana, come la Reggia di Venaria o di Caserta.
Foto che incantano il visitatore “sognante”, come quel tale di Argo - ricorda Calbi citando le Epistolae di Orazio - che «se ne stava lieto nel teatro vuoto a sedere e applaudiva, illuso di ascoltare mirabili tragedie». Con quella consapevolezza di Shakespeare che «siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni». Sono immagini oniriche quelle di Patrizia Mussa, piene di luce, con la visione frontale, il fuoco totale, l’esposizione cristallina.
Foto che sembrano dipinte. E in effetti lo sono. Perché dopo aver fissato la veduta e realizzato la stampa su carta cotone, la fotografa torinese interviene con i pastelli colorati a ripercorrere i dettagli e rendendola molto simile a un dipinto o a un arazzo: «E la bella parola che definisce la scrittura con la luce, per il suo lavoro, non è sufficiente. Servirebbe un neologismo», scrive la storica della fotografia Giovanna Calvenzi nel catalogo edito da Silvana Editoriale & Studio Livio. «Ne risultano figurazioni inedite – annota il curatore Antonio Calbi – che appartengono alla concretezza dell’esistente e del suo dato storico e allo stesso tempo se ne emancipano, assumendo dimensioni altre, quasi metafisiche. I teatri fotografati e rielaborati da Patrizia Mussa sono quintessenze formali, poesia visiva, esistenzialismo pittorico senza figure umane».
L’intento di questa particolare ricerca dell’artista non è restituire una catalogazione del sontuoso patrimonio architettonico teatrale italiano, quanto rivivere e restituire un’esperienza personale attraverso il gesto artistico: «Un lavoro di rigore e ripensamento – spiega la fotografa –, uno sguardo ad occhi socchiusi, l’innesco di un processo onirico, di smagliatura, di impoverimento, la ricerca di una radice, di un’anima, di un altro significato; una sorta di radiografia, di istantanea retinica o corticale, impressa su un velo sottile». Ciò che Mussa offre al pubblico è dunque l’idea stessa del teatro quale luogo per la comunità, in cui riunirsi, guardare ed essere guardati, sorta di tempio laico costruito «per l’immaginario – conclude Calbi –, luoghi dove può affiorare l’intangibile e dunque ambiti dell’anima». E dei sogni.
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