Tutti gli amanti del presepe hanno una statuina preferita. La mia è quella del pastore addormentato, sdraiato su una coperta e la testa appoggiata a una fascina. Credo che nella tradizione napoletana si chiami Benino. Giovane, poco più di un ragazzo, quasi sempre con un filo di barba a invecchiargli il viso, simboleggia l'immaturità dello spirito umano e chi, pur abitandola, vive la sua realtà come se fosse un sogno. Solitamente viene messo lontano dalla grotta, ai margini dell'allestimento come chi arriva a una festa dopo aver lavorato fino all'ultimo. E nel suo caso finisce per cedere di schianto alla stanchezza. Io lo immagino proprio così, vinto da una fatica perfino più forte della curiosità di vedere il bimbo di cui tanto gli ha parlato la madre: «cerca di arrivare in tempo». Il suo non è il sonno dell'indifferenza ma quello bello “pieno” di chi fa ogni giorno fino in fondo il suo dovere. E poi, anche se forse gli storici del presepe storceranno il naso, mi piace pensarlo forte di una fede “bambina” nel senso che crede, senza incertezze, totalmente, che quel piccolo nella greppia sia l'uomo nuovo. Per questo dorme pacificato. Come il giovane santo cui mentre giocava fecero la domanda delle domande: «Se sapessi che tra poco morirai, che cosa faresti?». «Continuerei a giocare».
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