giovedì 12 settembre 2013
Le biografie mi sono sempre apparse in fondo delle autobiografie, perché consentono allo storico una identificazione con il personaggio narrato molto più forte delle altre forme di narrazione storica. Anche la straordinaria biografia di Rahel Varnhagen scritta da Hannah Arendt mi ha dato la sensazione di un intreccio di identità e di domande. Rahel era la figlia di una ricca famiglia ebraica berlinese della fine del Settecento. Il suo salotto, rinomatissimo, fu frequentato dalla crema della cultura tedesca del tempo. In un rapporto con l'ebraismo al tempo stesso intimo e tormentato, si convertì, come molte altre donne ebree del suo mondo, per ottenere, come Heine, «un biglietto d'ingresso nella società». In punto di morte, però, rivendicò con emozione il suo ebraismo. Il libro di Hannah Arendt è un fine atto d'accusa contro quello che ai suoi occhi rappresentava il fallimento dell'emancipazione, l'impossibilità di uscire dalla condizione di paria. Lo iniziò nel 1933, lo riprese nel 1938, lo pubblicò infine a New York nel 1958. Le sue erano le domande di un'esiliata che aveva dietro di sé persecuzioni e morte: perché la simbiosi tra ebrei e tedeschi si era rotta? E tale simbiosi era mai davvero esistita?
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