La fretta con cui gestiamo i nostri giorni non ci illuda rispetto al bisogno di lentezza per accostarci all’essenziale: che sia di una lacrima o di un sorriso, di una ferita interiore o della levità che inspiegabilmente danza in certe ore perfette che nemmeno sembrano nostre. Arrischiamoci a rendere la speranza operativa non in una stagione ideale, ma in questo tempo concreto, che probabilmente non è neppure quello che auspicavamo; in questo tempo ferito e incompleto, pieno di spazi vuoti, di accelerazioni verso nessun dove; di desideri abbozzati e ritirati; di luoghi senza risposta. Mettiamoci in ascolto del cuore che silenziosamente batte, e non soltanto di quello che le parole dicono; e in questo modo proteggiamo la rivelazione che il tempo porta fino a noi, anche quando essa non è immediatamente comprensibile o facile. Sappiamo accogliere coloro che passano per la nostra vita restituendo loro la fiducia nel loro cammino e la certezza che non sono soli. Valorizziamo i piccoli passi, anche se ben distanti dalla meta; e non restiamo indifferenti ai gesti di supplica, con la loro povera e scarsa coreografia. Rendiamoci conto di quanto sia infinita e ricca di bellezza la missione contenuta nel verbo “nascere” e di quanto essa si compia lungo tutta la vita – in modo speranzoso, disarmante e doloroso – nel coniugarsi del verbo “rinascere”.
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