Mia sorella era stata dimessa dall'ospedale il 23 dicembre. Il nemico sembrava vinto, gli esami del sangue erano buoni. La gonna scozzese le ballava sui fianchi smagriti, ma sul viso di adolescente era tornato un po' di colore. Mia madre, non so come, in ventiquattro ore era riuscita anche a andare a comprare dei regali. E a sera della vigilia sul tavolo della cucina si allineavano gli agnolotti appena fatti, si allargava l'odore dell'arrosto. Sarebbe stato un Natale straordinario: Lucetta pareva guarita. Mai avevo visto i miei così felici. Mia madre, radiosa, era rinata.
Dopo l'Epifania mia sorella tornò in ospedale per i controlli. Quando il primario si affacciò nella stanza, a mia madre bastò guardarlo, per capire. Lucetta morì a marzo. Se penso al Natale del 1966, mi sento ancora come la bambina che ero. Perché, mi domandavo, se Dio c'è, aveva permesso che ci illudessimo? Non bastava ai miei, il dolore sopportato in quei mesi? Mia madre non tornò più quella di prima. Io cominciai a dubitare di Dio. Fra me, per anni, pensai a un inganno: è una pietra in cui sono duramente inciampata, quel Natale 1966. E forse quel giorno, faccia a faccia, non riuscirò a non chiedere perché lasciarci illudere, e sperare tanto: fino a pensarci, nel vuoto della morte, in verità soli.
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