Avendo insegnato all'università per più di vent'anni ed essendomi poi dimesso per mille ragioni tra le quali (forse al primo posto) c'era la nessuna voglia di occuparmi dell'università come problema più burocratico che pedagogico, il risultato è che a volte fantastico su come e che cosa insegnare ai ventenni di oggi. Leggo perciò sul numero di ottobre della rivista “Gli asini” i tre articoli Contro l'università scritti da Stefano Laffi, Andrea Inzerillo, Gabriele Vitello e da Claudio Giunta. Laffi comincia con un'osservazione molto notevole: all'inizio studiava economia ma trovò che era «una disciplina antibiologica per come tratta la natura e l'uomo»: sfruttamento, calcolo, controllo e nell'insieme una realtà irreale nascosta «dietro l'incessante uso di diagrammi». Passò quindi alla sociologia per ritrovare la «complessità del mondo» e «un umanesimo di cui l'economia è priva». Si aiutò frequentando narrativa, poesia e cinema e leggendo autori e libri «ignorati in università perché scritti fuori da canoni accademici, come Disagio della civiltà di Freud, Miti d'oggi di Barthes, Lettere luterane di Pasolini, La grande trasformazione di Polanyi, e poi Ivan Illich, Colin Ward, Christopher Lasch». Anche in sociologia infatti «la scrittura accademica appare sempre più autoreferenziale» e «l'iter previsto per le carriere universitarie alimenta rapporti umani avvelenati e di facciata, la burocrazia interna distrae dalla vocazione alla ricerca. Il risultato è che una disciplina chiamata a interpretare il presente è consumata in specialismi irrilevanti e in interessi particolari» cosicché «"l'università è uno dei luoghi dove più si pratica ciò che la sociologia stigmatizza, ovvero l'ingiustizia sociale (lavoro gratuito, disparità di reddito a parità di prestazione ecc.)».
Inzerillo e Vitello analizzano la logica dei concorsi e i criteri di valutazione richiamando le analisi critiche svolte già decenni fa da Pierre Bourdieu, mentre Claudio Giunta, filologo e scrittore, se la prende con la perdita di tempo che sono diventate le tesi-libro piene di inutili ripetizioni, a cui sarebbe bene sostituire la stesura di ottimi articoli di una quindicina di pagine «scritte alla perfezione». Gli studenti universitari dovrebbero poi soprattutto essere costretti a leggere una serie di “grandi libri”: sia i classici della propria disciplina, sia quelli di materie limitrofe. Il letterato dovrebbe leggere opere filosofiche e sociologiche, il filosofo legga romanzi e libri di critica letteraria, lo storico dell'arte dovrà studiare i classici della storiografia... Ci si riuscirà mai? Chissà.
Non è un caso se a qualcuno viene in mente di fondare minime università private organizzate secondo regole di buon senso.
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