Dopo un anno di lunghe e faticose (a tratti anche penose) ricerche, finalmente abbiamo trovato la quadra per l'assistenza diurna. Tutta "colpa" – si fa per dire – di Elena e Mariana (rigorosamente in ordine alfabetico), le due operatrici sanitarie che mi seguono dal giorno della tracheostomia. Mariana esattamente dal giorno del mio traumatico ritorno a casa dopo il ricovero, un'esperienza quasi da ritirata della Beresina, Elena dal giorno dopo. Tutta colpa loro, dicevo: troppo brave. A dirla tutta ce n'era una terza, anche lei molto brava, che tuttavia ad agosto dello scorso anno è stata costretta a gettare la spugna. Ci hanno provato in sette, tutti avevano detto di avere già esperienza con malati di Sla. Inutilmente. Il rebus, alla fine, l'hanno risolto Elena e Mariana, sempre loro, che hanno insegnato tutto a una loro amica fresca di diploma da Oss, Michela (meno esperta, certo, ma con la stoffa giusta).
Non è facile accudire un malato come me, ridotto a un sacco di patate, bisognoso di essere aiutato in tutto, dalla a alla zeta, che non parla, che respira attraverso un tubo e attraverso un altro tubo mangia. Ci vogliono competenza e professionalità, e pure pazienza, tanta. Anche forse doti divinatorie, per capire un muto, quando per mille ragioni non posso usare il computer per comunicare. Io non credo di essere un malato "difficile", nel senso che cerco di chiedere il meno possibile, purtroppo è la mia malattia a chiedere tanto, a volte in continuazione. E poi bisogna anche aver presente che non esistono due malati di Sla uguali, ognuno è diverso dall'altro.
Io da questo punto di vista mi posso dire fortunato. Le infermiere che a turno mi seguono per due ore ogni mattina – Paola, Sonia e Valentina –, così come Cesare, Fabrizio, Francesco e Roberto (loro mi accudiscono ormai da quattro anni, e anche loro a turno lavorano con le infermiere), di professionalità e competenza ne hanno da vendere. Ma come le tre signore dell'assistenza diurna, dalle 10 alle 20 (e per tre notti a settimana anche di quella notturna), ci mettono anche un'umanità che non è per niente scontata. Se non fosse che un po' mi vergogno, parlerei anche di affetto, perché è questo che sento. Tutte quante queste persone sono – anzi siamo, visto che ci sono anch'io, mia moglie e le nostre figlie – su una chat di Whatsapp (guarda caso chiamata Slalom). Quasi una famiglia. Buona estate, ci rivediamo a metà settembre, spero.
(77-Avvenire.it/rubriche/Slalom)
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