L'ultima cosa che sgomberammo della casa di mio padre alla sua morte fu la cantina, stipata di cose polverose. Su uno scaffale c'era uno scatolone. Lo aprii: vecchie carte, attrezzi arrugginiti. E, dentro una scatolina di cuoio, una medaglia d'argento, al valore militare.
Sapevo della medaglia, ma mio padre non ne aveva mai parlato. In un suo libro di memorie della Ritirata di Russia, della medaglia non faceva cenno. Ma leggendo capii perché l'aveva ricevuta. Nelle ultime ore della tragedia sul Don era stato incaricato con un compagno di recapitare ai comandi dell'8° e 9° Reggimento Alpini, rimasti isolati, l'ordine di ripiegamento.
Trenta gradi sottozero. L'automobile dello Stato Maggiore affidata ai due sottoufficiali scivolava sul ghiaccio, si faceva largo a stento fra crateri di bombardamenti e la folla di soldati sfiniti che marciavano in direzione opposta. Ore estenuanti, l'8° e il 9° non si trovano. L'auto si blocca: a piedi nella neve fra le isbe occupate dai resti di uno stremato esercito italiano, chiedendo disperatamente: «Dov'è l' 8°? Dov'è il 9°?». Dal cielo mitragliano. È l'una di notte, quando i due, sfiniti, recapitano l'ordine. Forse, qualcuno grazie a loro è tornato a casa. E la medaglia, in cantina. Ai figli ho letto quelle pagine: perché non possano dimenticare.
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