Era il 2005, a giugno. Il Po era in secca, il greto, in certi punti, ghiaia bollente sotto al sole torrido. Il giornale mi mandò a vedere. Trovai un barcaiolo gentile che mi accompagnò, dalle parti di Cremona, lungo il fiume.
Passando accanto a una casa vicina all’argine mi disse: venga a conoscere una donna del Po. La cascina era grande e silenziosa, nei cortili, forse un tempo pieni di bambini, nessuno. Gerani alle finestre però, e fiori davanti a una Madonna.
Era rimasta solo Celestina. Ottant’anni, capelli candidi, occhi del colore del fiume. Fiduciosa, accogliente. Con le vecchie mani stava impastando qualcosa sul tavolo della cucina. La casa come una delle lanche in cui il Po sosta, pigro: il tempo sembrava essersi fermato.
Celestina mi portò in una cantina profonda, buia, umida. «Vede, da qui sotto, con la piena, viene su l’acqua, da una polla sorgiva», mi spiegò.
L’acqua, in casa? chiesi, allarmata.
Celestina sorrise: «Il Po è il padrone, a tratti si ritira, poi ritorna. Io lo sento, di notte, quando gorgoglia su dalla cantina». «E non ha paura?» domandai. Lei, serena: «No, il Po è la mia vita, e spero di morire qui, vicina a lui», disse con una dolcezza che mi sbalordì. Non temeva la morte, sola sull’argine: la aspettava, quieta, quando Dio avesse voluto.
La mansuetudine di Celestina, indimenticabile. Me ne andai pensosa: io, mi dicevo, non ne sarò capace mai.
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