L’editore
Castelvecchi ripubblica in un volumetto,Tre parole sulla Resistenza alcuni scritti politici di Giacomo Noventa. Il
primo, “Discorso sulla Resistenza e sulla morale politica”, è del 1947, l’ultimo,
“Dio è con noi”, è del 1960 (anno in cui l’autore morì) ed è rimasto
incompiuto. La saggistica di Noventa non è letta come meriterebbe. Ha un ritmo,
una limpidezza, una cordialità, una passionale originalità che l’opinione
comune non ha ancora compreso. Noto e amato (da Fortini, Giudici, Raboni) come
poeta in dialetto veneto ma in strofe che sembrano echeggiare, classicamente e romanticamente,
Heinrich Heine, anche come saggista Noventa rappresenta un’anomalia, benché si
sia misurato con la filosofia di Croce e Gentile, con l’ermetismo fiorentino,
con le maggiori correnti ideologiche e politiche novecentesche, dal liberalismo
al socialismo, e con la tradizione cattolica. Qui è soprattutto il caso di
ricordare il primo breve saggio del ’47. Noventa vi propone una distinzione
netta e storicamente significativa fra Resistenza e antifascismo. Mentre la
prima ha «rappresentato in Italia una novità assoluta» perché «è stata un
trovarsi insieme, un conversare, un discutere» e non solo «un uccidere e un
morire», l’antifascismo invece esisteva già, era nato negli anni Venti e guardava
al passato, al come, al perché il fascismo era riuscito a imporsi. «L’antifascismo
conosce tutte le cause, mortali e veniali, del disastro. L’uomo della
Resistenza si domanda invece come mai un simile disastro sia stato possibile […]
E appunto perché l’antifascismo sa tutto, è tutto rivolto al passato, ma la Resistenza
all’avvenire». Ci sono stati «atti di delinquenza» che hanno «disonorato il
buon nome dei partigiani e della Resistenza in generale». Ma la cosa che nel ’47
sembrava perdersi e che avrebbe dovuto restare viva è la causa più profonda di
quel movimento: il suo aver combattuto contro «l’indifferenza popolare italiana
dal Risorgimento in qua». Questa indifferenza, mi sembra, rinasce di continuo e
c’è sempre un nuovo perché.
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